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sabato, Maggio 4, 2024

Le Miroir (Lo specchio) – 1^ episodio: Il naufrago

CulturaLe Miroir (Lo specchio) - 1^ episodio: Il naufrago
Costa nord occidentale della Francia. Un mattino di aprile. Mentre altrove, in luoghi a me più familiari, il sole comincia ad intiepidire i volti e i cuori indifferenti di industriosi e industriati individui simili a me, qui sembra novembre inoltrato.
dal Blog Kunta Kinte Marco Bertelli 
Vis-à-vis con l’Oceano, che in questa località diventa Stretto di Manica ma largo di spruzzi salati. Dalle scogliere che si intromettono tra le robuste onde, questi salgono a me come acqua che battezza a nuova Vita; accompagnati dal loro complice, un vento fresco e veloce che benevolmente scivola sul mio viso incastrato tra il grigio plumbeo del cielo che mi sovrasta e l’argento vivo dell’immensa distesa d’acqua che sta di fronte. Le scure nuvole di sopra corrono libere, sembrano inseguire le bianche onde di sotto. I Gabbiani, intonatissimi, compongono la loro melodia e il battito delle loro ali dona ritmo al tutto.
Il Sole, da dietro le quinte, osserva senza dir nulla, non è il suo show.
I miei occhi non vedono nessun umano intorno a se’, né pensano di cercarne qualcuno.
Mi sento come se fossi l’unico/ultimo individuo della mia specie rimasto sul Pianeta, avvolto da una delle sue innumerevoli meraviglie che annullano il tempo. Che Bellezza, che Spettacolo!!!
Che ci faccio qui? Come ci sono arrivato? Cosa mi ci ha portato?
Domande oziose, inutili in questo momento.
Se per ottenere qualsiasi cosa ci affidassimo esclusivamente alla razionalità, ben difficilmente i risultati conseguiti corrisponderebbero all’intento iniziale, o meglio, a quello che la mente suppone lo sia. La mente vuole “fare”, presume di poter “fare”. Ma al massimo propone, mentre c’è qualcos’altro che dispone. Bene, quel qualcos’altro, ci si creda o no, convive con noi, dentro di noi, e nascosto da qualche parte aspetta di essere scoperto.
Questo pensiero che percorre come una di quelle nuvole la mia testa, racchiude in se’ domanda e risposta, inizio ed epilogo di questa strana storia.
“Che ci faccio qui?”. A dire il vero, non è poi una domanda così inutile. Me la sono posta in un giorno di ordinaria provincia del nord Italia. In un posto qualsiasi, un bar, dove già dalle prime ore del mattino puoi leggere, se vuoi, contemporaneamente: i disastri nazional-popolari sui quotidiani freschi d’edicola, i fondi del caffè aggrappati al fondo della tazzina fresca di lavastoviglie e la ricerca di una motivazione plausibile per la nuova giornata, stampata a caratteri tipografici negli occhi dei clienti, che entrano alla spicciolata, freschi di sonno.
Soprattutto per i primi che entrano, non è per nulla facile trovare tale motivazione. Non la cercano negli occhi di chi prepara loro il caffè e gli serve sul piattino la brioche profumata di zucchero a velo e burro industriale, non la cercano nell’enorme specchio dietro il bar, dove si riflette la loro stessa immagine vista di sfuggita pochi minuti prima nel bagno di casa, neppure nelle indifferenze degli avventori “sconosciuti”, anche se già visti le mattine precedenti, intenti a farsi i fatti loro. Aspettano con ansia che la loro quotidiana motivazione entri dall’ingresso, sotto forma di un amico di quelli soliti, il quale ha il potere, semplicemente pronunciando un “ciao” o un “buongiorno” esattamente nello stesso modo di sempre, di ricordargli che la sua “motivazione odierna” è esattamente quella di ieri, ovvero riuscire a sottrarsi il più possibile alle insidie nascoste nelle incognite pieghe di una giornata in ufficio, in fabbrica o in altro luogo ove la solita routine e le lancette sempre troppo lente del giorno li condurranno a giusta sera, in balia di lancette fin troppo veloci, che li condurranno quasi senza capire come, l’indomani, di nuovo qui. L’amicale complicità che traspare da ogni loro discorso, si snoda sinuosa tra le maestose onde delle lamentele che si spostano freneticamente dal meteo, mai abbastanza aderente alla stagione in corso, ai comportamenti fastidiosi e stronzi di intollerabili colleghi d’ufficio o compagni di lavoro (non di rado originari di “latitudini diverse” da quella dove scorre il Po), vere piaghe cui nessuno trova mai rimedio efficace, non essendo in vigore nel nostro stato la pena capitale. Trovarsi la mattina al bar e dichiararsi d’accordo su ciò che va male, sono le fondamenta della casa che diverrà la loro giornata. Sono i veri e propri architetti della loro vita, e indipendentemente dal fatto che ne siano coscienti o no, sembrano proprio degli architetti soddisfatti. Tant’è vero che il giorno dopo sono di nuovo lì, a riprogettare una nuova costruzione, il più possibile identica a quella del giorno prima.
Osservandoli non posso che provare ammirazione. Non per le loro “costruzioni”, che comunque rispetto, ma per l’amore che ci mettono nel progettarle. Senza amore, amore vero, non costruisci nulla.
E’ una cosa che a me manca, non lo nascondo. Non riesco a concepire progetti come i loro.
Osservandoli vedo me stesso, nel mio passato, quando la mia vita era uguale alla loro, fino al giorno in cui ho capito che non avrei potuto continuare ad essere come loro. Vedo la realizzazione da parte di altri, di un qualcosa che io non sono capace di realizzare.
Una vita “regolare”, con delle abitudini circoscritte all’interno di ben determinati schemi: il lavoro, la famiglia, la casa, le amicizie e via dicendo. Tutto questo, ad un certo punto della mia vita, mi è sembrato come un enorme mare in burrasca, un oceano nel quale io non sapevo più navigare, e mentre tanti natanti attorno a me proseguivano sulla loro rotta, io ho fatto del mio vascello una scialuppa e faticosamente ho cercato un’isoletta sulla quale approdare, tanto per asciugarmi un po’, per riprendermi dallo spavento che mi era preso per paura di affogare in quelle acque agitate, nelle quali altri continuano a navigare, dimostrandosi sicuri della propria imbarcazione e fiduciosi che la rotta che tutti si affannano a seguire sia davvero la rotta giusta.
Nessuna recriminazione per il mio passato, nessuna invidia per il loro presente. Se io non avessi vissuto quel passato e se non mi fossi rifugiato sulla mia isoletta, ora non starei qui a scorgere, tra i meccanismi delle loro lamentele, la perfezione dell’amore che provano per il loro presente: ecco la riflessione del “naufrago” che io sono, fortunato di sentirsi al sicuro su un’isoletta sperduta dentro a un bar, in un giorno di ordinaria provincia, nel tiepido aprile del nord Italia.
Ma mentre gli “architetti” oggetto della mia bizzarra riflessione, a bordo del loro vascello, salpano per la loro giornata e lasciano il bar, io continuo a sentirmi “naufrago”. Allora, “che ci faccio qui?”.
Sarà il senso di separazione dal resto del mondo che tale riflessione provoca in me e a cui non trovo nessuna giustificazione plausibile, sarà l’aria di primavera che consiglia anche ai naufraghi di salpare comunque, non so che cos’è; ma oggi voglio trovare una rotta nuova. Lasciare la mia isoletta per vedere se posso tornare a navigare senza paura.
Per cominciare voglio cambiare posto. Parto per una grande città. Le metropoli del nord sono piene di naufraghi che trovano nuove rotte. A Milano ci sarà solo l’imbarazzo della scelta.

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