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sabato, Aprile 27, 2024

Petraroia alle comiche finali. I lavoratori crepano, lui scrive di monaci e abati del 1300

AperturaPetraroia alle comiche finali. I lavoratori crepano, lui scrive di monaci e abati del 1300

di PASQUALE DI BELLO

Ancora una performance storico-letteraria dell’assessore al Lavoro della Regione Molise.  Mentre imprese, famiglie e lavoratori sono strangolati dalla crisi, Michele Petraroia non trova di meglio che almanaccare su monaci e abati del 1300. Secondo lui sono gli antesignani dello Statuto dei Lavoratori. Ragionamenti che suonano come un’offesa davanti a tutti i problemi irrisolti. A partire dal mancato pagamento della Cassa integrazione in deroga a 282 lavoratori.

Un altro episodio di mortificante presa per i fondelli dei lavoratori, la Regione Molise lo ha affidato la mattina dell’Immacolata a Michele Petraroia. Vicepresidente della Giunta e assessore alle chiacchiere. Con una sua epistola indirizzata ai sindaci di Cercemaggiore e Ferrazzano e, per conoscenza: al vescovo Bregantini, ai parroci delle rispettive comunità e ai padri domenicani del convento di Santa Maria della Libera), Michele Petraroia, levigato e impollastrato dai lauti stipendi regionali, è intervenuto sul seguente tema: “Due figure religiose del Molise, Nicola da Ferrazzano  III° Abate di Santa Maria del Gualdo dal 1324 al 22 gennaio 1345, e Nicola da Cerce,  V° Abate dal 10 ottobre 1350 al 24 aprile 1363 e già Procuratore del Monastero del Gualdo dal 1330, elaborarono l’art.69 dello Statuto Comunale di San Bartolomeo in Galdo in cui per la prima volta è disciplinata la nozione giuridica di GIUSTA CAUSA per i licenziamenti dei lavoratori”. Ad essere informati di questa dotta scoperta, mancano solo il Papa e l’arcivescovo di Canterbury, ma Petraroia ha già fatto sapere che provvederà domani.

Voi, cari lettori, capirete con quali fuochi d’artificio e scoppio di petardi sia stata accolta questa notizia dai lavoratori. Quelli che mentre crepano, sono costretti a subire le quotidiane mortificazioni di un assessore al Lavoro incapace di risolvere, o quantomeno, alleggerire, una sola delle crisi che uccidono famiglie e lavoratori molisani. Un’incapacità direttamente proporzionale solo al volume di fumo negli occhi gettato in faccia ai molisani. Prendiamo ad esempio l’ultima vicenda in ordine temporale, quella inquietante del mancato pagamento della Cassa integrazione in deroga a 282 lavoratori. Chi vuole, la storia può rileggerla nei precedenti articoli di questo giornale. Qui basti dire due cose. La prima è che Petraroia i soldi li ha a disposizione da mesi; la seconda è che non è ancora riuscito a farli avere ai lavoratori. Questo sono due dati di fatto oggettivi. Incontrovertibili, a dispetto delle chiacchiere dell’assessore che continua a mettere tutto nel frullatore, nel disperato tentativo di far credere che le responsabilità sono altrove: dall’Inps al Ministero del Lavoro, dalla vecchia alla nuova normativa. Questo senza dire una sola parola su chi, come e perché, ha eventualmente smarronato all’interno dell’assessorato da lui retto. Oltre alle responsabilità politiche (che sono tutte sue), Petraroia ha il dovere di chiarire ai cittadini e ai lavoratori se vi siano stati errori o inadempienze da parte della struttura tecnica dell’assessorato. Perché, ad esempio, lui tanto largo di eloquio e di inchiostro non prende carta e penna e mette nero su bianco? Se non vuole scrivere a noi, scriva almeno a Frattura che, pur volendosi sbarazzare di Petraroia, è comunque responsabile di una scelta catastrofica: quella di aver affidato l’assessorato al Lavoro all’ex segretario regionale della Cgil. Uno dei tanti sindacati che, insieme agli altri al gran completo, continua a tacere colpevolmente su questa vicenda.

Per darvi la misura di quanto grottesca sia diventata la presenza di Petraroia al posto che occupa, e non da ultimo per proporre il suo immediato trasferimento al vertice dell’Iresmo (l’Istituto Regionale per gli Studi Storici del Molise), riportiamo a beneficio dei lettori e, soprattutto, dei lavoratori, il testo integrale dell’epistola diramata durante la festa dell’Immacolata.

“Presso la Biblioteca Vaticana è rintracciabile  il <Codice Vaticano Latino 5949>  scritto dall’amanuense Eustasio tra il 1203 ed il 1215 che indica ai fogli 232-248  i Priori dell’Abbazia di Santa Maria del Gualdo fondata da San Giovanni Eremita da Tufara con Bolla del 14 aprile 1156 di Papa Adriano IV. Uno dei più grandi storici della Pontificia Università Lateranense Padre Antonio Casamassa ha ricostruito nella prima parte del secolo scorso, parte delle attività di una dei più importanti centri religiosi del Medio Evo su cui intervennero per protezione e sostegno Federico II di Svevia, Carlo I d’Angiò, e diversi Pontefici. Tra questi Bonifacio VIII°  elevò il Monastero in Abbazia alla fine del 1200, e Papa Giovanni XXII nel 1333 difese Santa Maria del Gualdo da Avignone così come Papa Urbano V nel 1363 sempre da Avignone. La documentazione più importante è stata messa a disposizione da Mons. Ciro Starnataro Direttore dell’Istituto Pastorale presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale ed è una copia dello strumento rogato l’8 maggio del 1331 estratta dalla Pergamena Originale che si conserva nell’Archivio dei Canonici Lateranensi a Roma. Trattasi di un atto di grande valore sociale predisposto dai successori di San Giovanni Eremita da Tufara, e in particolare dall’Abate Nicola da Ferrazzano e dal procuratore dell’Abbazia Nicola da Cerce. E’ lo Statuto su Immunità, Franchigie e Libertà del Comune di San Bartolomeo in Galdo autorizzato dal Re Roberto D’Angiò e trasmesso nel 1337 alla Curia Vaticana. Diversi i testimoni del Molise menzionati nell’Atto Notarile ( Giovanni di Sepino, il diacono Benedetto da Frosolone,, Domenico di Nicola da Castropignano, Francesco da Guardia di Campochiaro e nell’Atto del 1337 Fra Stefano da Riccia e Fra Adamo da Ferrazzano).  Il rilievo culturale deriva dalla scelta di inserire all’interno dello Statuto delle norme a tutele delle donne, dei fanciulli, del lavoro e dei più deboli. In particolare l’art. 69 dello Statuto è intitolato  “ Dei lavoratori gualani e stallieri tenuti dagli uomini di detto castro ai loro servizi “  e riporta in più punti letteralmente  < spinti da una giusta causa o necessità…> oppure  < vorrà licenziare senza essere spinto da alcuna causa giusta e ragionevole..> o infine <..recedere senza alcuna causa legittima..>. In pratica si disciplina la GIUSTA CAUSA come motivo fondato per licenziare un lavoratore ed a farlo sono due figure molisane, rispettivamente di Ferrazzano e di Cercemaggiore, che elaborando lo Statuto inserirono norme anticipatrici del diritto del lavoro e del pensiero marxista del XIX° secolo. La Rerum Novarum di Leone XIII è della fine del 1800 e per avere in Italia una norma a garanzia della parte più debole del mercato del lavoro bisogna aspettare la legge n. 300 del 20 maggio 1970 definita lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori che all’art. 18 disciplina la GIUSTA CAUSA ed il reintegro in caso di licenziamento privo di giustificato motivo. Nell’ultimo ventennio la crisi del modello sociale europeo ha indotto le gerarchie finanziarie comunitarie a comprimere le tutele sociali in materia di contratti collettivi, previdenza e diritti nel lavoro, giungendo a sollecitare la soppressione dell’art. 18, ritenendolo un impedimento alla crescita e allo sviluppo. Al di là del merito e delle posizioni in materia sorprende in senso positivo che due personalità religiose di Ferrazzano e di Cercemaggiore già nel 1331 sancivano la necessità di avere una GIUSTA CAUSA per licenziare un lavoratore, ottenendo su tale clausola, a differenza di oggi,  l’assenso del  Re del Papa di quel periodo”. (Campobasso, 8 dicembre 2014 Michele Petraroia).

Ecco, alla fine di questo comunicato stampa c’è poco da dire. Il risultato si vede ad occhio nudo. Se Nicola da Ferrazzano e Nicola da Cerce avessero conosciuto Michele Petraroia, alla teoria della giusta causa ne avrebbero aggiunta un’altra. Quella del licenziamento in tronco, per abuso della pazienza.

 

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