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sabato, Maggio 18, 2024

Il mercato della Sanità

AperturaIl mercato della Sanità

di Manuela Petescia

La parola “sanità” in Molise ormai evoca solo piani di rientro, riduzione del deficit e tagli.
Ma al di là della correzione di alcune vistose storture del sistema, correzione sicuramente necessaria, c’è un principio filosofico di base che non può essere accantonato e dal quale non si può prescindere: il diritto alla salute uguale per tutti i cittadini italiani e sancito dalla nostra costituzione.
E il diritto alla salute non lo stabilisce il mercato.

Una volta si parlava di salute, medicina, ospedali, vite umane salvate.
Oggi si chiamano imprese del settore sanitario.
Una volta c’era il giuramento d’Ippocrate.
Oggi ci sono le entrate e le uscite, i costi e i ricavi.
Come se il numero dei pazienti e la varietà delle patologie fossero un mercato e dall’incontro di domanda e offerta (magari 600 infarti e 44 “cacarelle”) si potesse regolare la quantità di servizi sanitari da offrire ai cittadini, riducendo gli sprechi.
Sul numero e la varietà media di malanni per i quali si fa ricorso alle cure ospedaliere – territorio per territorio – si calcola il fabbisogno di strutture sanitarie, di medici, di reparti e orari di lavoro, un po’ come in base alla domanda di bulloni un’industria decide l’entità produttiva da immettere sul mercato e stabilisce, su quella entità, il numero di macchinari, il tetto occupazionale e i turni degli operai.
Se poi casualmente quell’anno la produzione sarà stata inferiore o superiore alle aspettative di mercato, quell’imprenditore alzerà il prezzo di una merce più rara – per recuperare i profitti – o si ritroverà una giacenza in magazzino.
Ma un paziente è una vita umana e le merci non c’entrano nulla.
Se l’offerta di servizi sanitari sarà inferiore alle esigenze di salute, fosse anche per una singola persona, non ci sarà il bullone in magazzino ma una vita umana in grave disagio, se non spezzata.
E il valore di una vita umana o della dignità di una vita umana non lo quantifica il mercato, a meno di buttare alle ortiche l’articolo 32 della Costituzione italiana.
L’organizzazione della sanità in Molise, all’insegna dei tagli, parte da un presupposto capitalistico inaccettabile, quello della quantità delle merci, del costo/ricavo, del profitto e della lotta agli sprechi aziendali.
Con tanto di surplus (per usare un linguaggio forse antico ma efficace), che non andrebbe certo a vantaggio degli ammalati molisani ma del solito Nord Italia, in una recrudescenza perfino morale del distacco tra i due lembi della penisola: dopo averci negato le infrastrutture e dopo averci usato come pattumiera dell’efficientissima Padania, ora ci tolgono pure il diritto alla salute.
A partire dal numero dei potenziali ammalati, che in Molise è per forza di cose esiguo, si sta costruendo un castello di chiacchiere saturo di vocaboli vuoti, come razionalizzazione delle risorse, lotta allo spreco, maggiore qualità, eccellenza sanitaria.
Un castello di carta pronto a crollare miseramente se non si è colpiti dalla patologia giusta, nel posto giusto e nell’orario giusto per buona pace degli scienziati dei numeri. Il progresso che fa ricorso alle preghiere e alle candele accese ai santi.
Se colpito da infarto a Campobasso mi salvo e ad Agnone muoio tra le curve e i viadotti innevati, quella non si chiama razionalizzazione, si chiama disuguaglianza.
Se due infermieri per reparto devono assistere 40 ammalati, quella non si chiama qualità, si chiama carenza di personale.
Se il medico del pronto soccorso è costretto a parcheggiare il paziente per ore in corridoio, su una barella, non è riduzione di sprechi, è mancata assistenza.
Se le liste d’attesa per le analisi e gli esami diagnostici raggiungono i sei mesi, non è eccellenza, è terzo mondo.
Se nel 2013 una donna corre ancora il rischio di partorire in macchina, quella non si chiama casualità, ma si chiama ridicolo.
E se un bambino muore semplicemente perché non c’è la strumentazione idonea a diagnosticargli una malattia rara, perché è costosa e il Molise non se la può permettere, non è destino ma questione meridionale.

 

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