di Agostino Rocco*
La Fiat a Termoli fu un vero e proprio volano economico negli anni ’70. Grazie all’iniziativa dell’on. Girolamo Lapenna, l’arrivo dello stabilimento portò oltre 4.000 posti di lavoro, trasformando radicalmente il tessuto sociale ed economico della città. Per Termoli, fino ad allora legata soprattutto alla pesca e all’artigianato, fu una “manna del cielo”, aumentò il reddito medio delle famiglie, si svilupparono servizi e infrastrutture, e molti giovani ebbero un’opportunità concreta di occupazione stabile.

Poi, dopo il 2000, lentamente ma progressivamente tutto è cambiato. Cassa integrazione, chiusura dei reparti è forte riduzione delle maestranze.
Il graduale smantellamento della fabbrica Fiat, divenuta Stellantis, ha avuto conseguenze profonde, lente ma devastanti, proprio perché ha eroso nel tempo ciò che per decenni era stato solido.
La prima conseguenza è stata la perdita progressiva di lavoro stabile. Non un crollo improvviso, ma un logoramento continuo: reparti chiusi, produzioni ridimensionate, pensionamenti non sostituiti. Ciò ha creato una precarietà diffusa, fatta di contratti brevi, esternalizzazioni, cassa integrazione a intermittenza. Il lavoro industriale, che garantiva dignità e futuro, ha smesso di essere un punto fermo.
A cascata si è indebolito tutto l’indotto. Piccole aziende, officine, trasporti, servizi di manutenzione, mense, pulizie, era tutto un sistema che viveva intorno alla fabbrica, e che ha iniziato a spegnersi. Ogni posto perso in Fiat ne trascinava altri fuori dai cancelli, spesso nel silenzio e senza tutele.
Sul piano sociale, Termoli ha conosciuto così una devastante frattura generazionale. I padri avevano avuto il “posto sicuro”, i figli no. Molti giovani sono stati costretti a partire, verso il Nord o l’estero, svuotando la città di competenze e speranze. L’emigrazione è tornata, sotto forme nuove ma con la stessa amarezza del passato.
È cambiata anche la fisionomia urbana: meno reddito significa meno consumi, negozi che chiudono, investimenti che non arrivano. La città si è lentamente ripiegata su sé stessa, perdendo quella fiducia collettiva che l’industria aveva alimentato.
Infine, c’è stata una conseguenza più sottile ma decisiva: la perdita di identità. La fabbrica non era solo lavoro, era appartenenza, orgoglio, coscienza di classe. Il suo svuotamento ha lasciato un vuoto simbolico, sostituito da rassegnazione e disincanto, spesso accompagnati dalla sensazione di essere stati abbandonati dalla politica e dallo Stato.
In sintesi, lo smantellamento non ha solo tolto posti di lavoro, ha corroso lentamente il futuro di una comunità, trasformando una conquista storica in una lunga, silenziosa sconfitta.
In tutto questo la politica, come le stelle, resta a guardare.
*Giornalista, scrittore



