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martedì, Giugno 17, 2025

Dal mancato quorum all’impegno per aprire una nuova fase politica

EditorialiDal mancato quorum all’impegno per aprire una nuova fase politica

di Italo Di Sabato*

Viviamo un’epoca che dimostra come i rapporti tra elettori, governi e forze politiche siano estremamente instabili, con un’opinione pubblica sempre in bilico tra il riflusso e l’indignazione (senza conflitto sociale). Per questo nessuno può dormire sonni tranquilli, tantomeno pensare di aver ottenuto consensi consolidati.
Negli ultimi trent’anni, cioè dai referendum del 1995 sulle Tv di Berlusconi, solo in una tornata referendaria su dieci si è raggiunto il quorum, per il referendum sull’acqua pubblica del 2011 per cui votò il 54% degli aventi diritto. Nove fallimenti referendari su dieci segnalano quanto lo strumento principale di democrazia diretta previsto dalla nostra Costituzione sia diventata una competizione elettorale quasi impossibile.

Storicamente i referendum sociali sulle questioni del lavoro dipendente non hanno sempre avuto esito negativo. Anzi. Quello proposto da Democrazia Proletaria nel 1981 sul ripristino della contingenza sulle liquidazioni costrinse il governo Spadolini a promuovere una riforma delle liquidazioni e concedere diverse cose (quelle delle attuali normative sulle liquidazioni). Certo non era tutto ciò che chiedeva il quesito ma il referendum venne cancellato dalla Corte Costituzionale sostenendo che le nuove normative acquisivano il contenuto del quesito referendario. Analogamente la proposta referendaria dell’estensione dello statuto dei lavoratori alle aziende sotto i 15 dipendenti, sempre proposto da Democrazia Proletaria nel 1988, costrinse il parlamento ad inserire anche per questa aziende un indennizzo per il lavoratore licenziato ingiustamente (che prima non esisteva). Per cui le ultime due conquiste del mondo del lavoro (liquidazione ed indennizzo anche per licenziamenti in aziende sotto i 15 dipendenti) furono figlie anche della lotta referendaria. I referendum sui lavoratori hanno possibilità di portare a casa dei risultati se l’esecutivo e il legislatore sono disponibili a fare, seppur flebili, concessioni. Cosa che oggi è impensabile nell’epoca del maggioritario e della decretazione d’urgenza che hanno riotto il parlamento ad un simulacro, espropriato totalmente delle sue prerogative.

L’ esito referendario era nelle cose, nonostante l’impegno per propiziare un miracolo. Era nelle cose perché l’astensionismo è, ormai, una costante del nostro sistema e non è pensabile che operi a compartimenti stagni, solo per le elezioni politiche o amministrative. Lo dicono i dati: i referendum abrogativi successivi al 2000 hanno visto la partecipazione, rispettivamente, del 25,73% degli aventi diritto nel 2003 (con un quesito, anche allora, sul reintegro dei lavoratori illegittimamente licenziati), del 25,66% nel 2005, del 23,52 nel 2009, del 54,82 nel 2011 (quando si votò su acqua pubblica e nucleare), del 31,19% nel 2016 e del 20,48% nel 2022 (con diversi quesiti sulla “giustizia giusta”).
Dunque, gli attuali referendum non hanno sfondato ma hanno richiamato alle urne un numero di elettori superiore alla media di quelli presentatisi ai seggi nei referendum degli ultimi due decenni. Non solo, ma, se si guarda al voto delle elezioni più prossime, ad esempio alle elezioni regionali in Molise del 2023 è agevole constatare che la partecipazione è stata del 47,95%%, mentre nelle analoghe elezioni, nel 1990 (ultima elezione con il sistema proporzionale) votarono il 76,74%, nel 1995 (elezione con l’indicazione del presidente) il 72,20%, nel 2000 (prima elezione diretta del presidente) il 67,34%, nel 2001 il 65,21%, nel 2006 il 65,10, nel 2011 il 59,79, nel 2013 il 61,63%, nel 2018 il 52,2%.

Come si può ben vedere, a ogni turno elettorale la partecipazione democratica al voto delle cittadine e dei cittadini cala inesorabilmente. Gli automatismi in materia elettorale sono impropri e vanno presi con le molle, ma la linea di tendenza è chiara. Si aggiunga che la difficoltà di raggiungere il quorum era acuita, nel caso specifico, dallo scippo della consultazione sull’autonomia differenziata operato dalla Corte costituzionale che ha fatto venir meno l’afflusso alle urne di molti elettori soprattutto, ma non solo, delle regioni del Sud, dal mancato accorpamento del voto referendario con quello amministrativo.
Proprio questa crescente diminuzione della partecipazione al voto ha permesso a chi è contrario ai quesiti proposti di sottrarsi dalla battaglia politica sui temi, limitandosi ad accompagnare l’ormai duratura tendenza al non voto per far fallire i referendum. Una modalità che, nonostante le polemiche innescate dall’invito a non votare da parte di Ignazio La Russa e Giorgia Meloni, non è stata coniata dall’attuale destra antidemocratica al governo. Anzi è stata più volte utilizzata anche dal Centrosinistra, basti ricordare il “referendum è inutile” detto da Cofferati nel 2003 sul referendum per l’estensione dell’art.18 o lo “ciaone” della campagna astensionista del Pd di Renzi sul referendum sulle trivelle del 2016, dove persino il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, sostenne l’astensione definendo l’iniziativa referendaria “inconsistente e pretestuosa”. Come criticare la destra senza nemmeno impegnarsi a presentare una legge che abolisca il quorum nel referendum?
Nella scarsa affluenza al voto ha indubbiamente pesato la scelta del governo e di larga parte dei media di oscurare la questione evitando che diventasse oggetto di un pubblico dibattito, di un confronto nel merito. Il tutto complicato dalla sfiducia verso il voto che è oramai larghissima, specie negli strati popolari.

A questo va aggiunto che l’unica volta che il referendum ha raggiunto il quorum, per l’acqua pubblica, il risultato è stato completamente disatteso da tutti gli schieramenti nei quindici anni successivi, rafforzando l’idea che votare non serva a nulla. Anche per questo gli sfoghi sui social network contro le singole persone che non sono andate a votare non sono solo inefficaci ma anche supponenti: perché individualizzano, con la modalità moralistica tipica dei social, una questione politica profonda.
Nonostante la sconfitta, questa tornata referendaria ha mostrato però un dato importante da non sottovalutare: nessuno (tranne Matteo Renzi) sembra avere più il coraggio di rivendicare come proprie le politiche di flessibilità del mercato del lavoro. La propaganda sulla flessibilità del lavoro sembra aver esaurito gli argomenti.

Eppure, dagli anni Novanta fino ai tempi recenti, ci hanno raccontato in modo bipartisan che lottare contro i licenziamenti senza giusta causa era come voler “mettere i gettoni nell’i-phone”, che con l’innovazione tecnologica il posto fisso non esiste più, che la mobilità del lavoro crea ricchezza, e che cambiare spesso lavoro in fondo è divertente. Narrazione che aveva visto proprio gli eredi dell’ex Pci convertiti al liberalismo tra i più zelanti ed entusiasti interpreti.
Oggi tutti sembrano coscienti della crisi di consenso delle politiche di flessibilità nel mercato del lavoro, per questo anche di fronte ai referendum hanno provato a parlare d’altro. Il problema è che nessuno sembra avere la forza di cambiarle.
Ma come si esce da un’ennesima sconfitta? I partiti di Centrosinistra e la stessa Cgil invitano a ripartire dai 13 milioni di voti raccolti sul Sì. Una petizione che ricorda quella di Fausto Bertinotti dopo il referendum del 2003 sull’articolo 18 con un’affluenza di circa il 26%: non andò bene, anzi quel referendum segnò prima la fine del biennio di lotte apertosi con il G8 di Genova e poi la stessa fine della sinistra radicale, uscita dal Parlamento nel 2008 dopo la disastrosa partecipazione al secondo Governo Prodi e da allora sempre più marginale nella società.

C’è però una differenza: se allora la proposta referendaria intendeva mettere insieme i movimenti sociali dei due anni precedenti e sfidare da sinistra lo stesso Centrosinistra (Cgil compresa), questa volta l’idea del referendum è nata proprio dalla ricerca di una mossa per reagire all’immobilismo dei movimenti, e per radicare a sinistra le forze del Centrosinistra. Un tentativo, quest’ultimo, che in parte sembra in effetti riuscito.
Inoltre, su il quinto referendum quello che proponeva di accorciare i tempi per ottenere la cittadinanza, hanno votato circa 14 milioni di persone, il 30% dell’elettorato attivo. Di questi, oltre un terzo – il 34,5% – ha espresso un voto contrario. Una percentuale che stride con i risultati degli altri quesiti, dove i “no” oscillano tra l’11% e il 12%. È inutile e sbagliato nascondere che il discorso xenofobo non è più ai margini: è entrato nei bar, nei mercati, nei pensieri quotidiani di chi cittadino lo è già. Il pensiero nazionalista si fa spazio dove esistono fragilità economiche, precarietà lavorativa, isolamento sociale. E la sinistra, intanto, sembra afona nell’elaborare un’alternativa sociale ed economica che possa rassicurare, pragmaticamente e non astrattamente, questo fronte contrario di 4,7 milioni di elettori. Un fronte che è tra i propri elettori. Non possiamo limitarci a parlare di “nuovi italiani” come di un concetto astratto o moralmente superiore. È una necessità strutturale. Il nostro declino demografico è un dato: abbiamo bisogno di nuovi cittadini, come lavoratori, come contribuenti. Dare diritti significa anche dare doveri. Non deve essere declinato idealisticamente, ma come un’esigenza pragmatica per tenere in piedi la democrazia. Ripartiamo da qui. Dai numeri, dalla realtà, ma anche dalla necessità di una proposta forte, coerente, alternativa al nazionalismo xenofobo.
Per ripartire davvero dai quei 13 milioni di voti dovrebbe esserci una qualche strategia di rilancio della loro mobilitazione, nei luoghi di lavoro e di studio, nelle piazze e nei quartieri.

Il referendum sull’acqua bene comune fu il frutto di una mobilitazione nata già alcuni anni prima e che trovò il suo culmine nei due anni di raccolta firme e poi di campagna per il voto, sedimentando centinaia di comitati in tutto il paese e una struttura organizzata nazionale.
La campagna referendaria dell’8 e 9 giugno è stata sicuramente capace di creare convergenza e mobilitazione, ora bisogna sedimentare questa esperienza organizzata capace di agire per creare strumenti per cambiare i rapporti di forza. Una battaglia giusta si può e si deve fare anche se si è coscienti che con ogni probabilità nell’immediato può essere sconfitta. Ma bisogna avere un’idea del passo successivo.
Per questo, nella consapevolezza che le classi popolari italiane non sono traditrici e stupide ma deluse, frantumate e prive di speranza, occorre costruire una alternativa popolare a partire dai 13 milioni di voti per coinvolgere gli strati popolari che non sono andati a votare.
Il dato del referendum dunque è una questione politica, che interroga la natura e le prospettive della sinistra. Le classi popolari, in Italia, rappresentano ancora una fetta ben consistente del corpo sociale, in cui i ceti bassi e medio bassi del lavoro salariato e impiegatizio assommano a due terzi del totale. In una situazione in cui la mobilità sociale si è ridotta, l’economia langue e sono i settori a più basso valore aggiunto e a bassa produttività che vedono aumentare l’occupazione, in condizioni di sempre maggiore precarietà, le classi popolari, tuttavia, hanno trovato sempre meno rappresentanza anche tra le forze di sinistra, che hanno teso a privilegiare il ceto medio. E non sorprende che tanto il sostegno a quelle forze che la partecipazione elettorale stessa da parte dei ceti bassi e medio-bassi siano andati diminuendo vistosamente negli ultimi anni.
Al lavoro, negli ultimi trent’anni, sono stati tolti diritti, anche con il concorso della sinistra riformista, liberal, chiamiamola come vogliamo, che accettando il credo neoliberista, diceva che era l’impresa che andava messa al centro, perché “crea ricchezza”. Questa sinistra ha promosso politiche che, di fatto, hanno portato ad un impoverimento del lavoro, nelle sue fasce meno qualificate, favorendo l’aumento della precarietà, spesso in nome della flessibilità. Nel contempo, il capitale è stato favorito e i redditi alti hanno preso a crescere, anche a svantaggio del ceto medio. Le disuguaglianze sono aumentate, così come la povertà.

Promuovere i referendum sui Jobs act, per ridare al lavoro diritti e tutele, è stata quindi una decisione che ha risposto all’esigenza di “rimettere il lavoro al centro”, una decisione che la Cgil ha preso coraggiosamente e che pone comunque una questione politica rilevante, quella di ridare voce alle fasce più deboli e meno rappresentate. Una questione che interroga in primo luogo il Pd, e la sua adesione al neoliberismo mercatista, e tutto il fronte progressista.
I referendum hanno costretto queste forze a schierarsi e a fare i conti con sbandate, errori e ambiguità di un passato anche recente. Difficile dire se si tratta di un posizionamento contingente o dell’avvio di una nuova fase caratterizzata dalla revisione di scelte politiche assunte in ossequio al liberismo imperante e a un nazionalismo miope e fuori dalla storia. In ogni caso è un percorso in fieri, pieno di timidezze e contraddizioni, ma la sua esistenza è un fatto non trascurabile che sarebbe sbagliato sottovalutare.

*Italo Di Sabato attivista sociale, coordinatore dell’Osservatorio Repressione. È stato dirigente politico di Democrazia Proletaria e Rifondazione Comunista, nonché consigliere regionale in Molise. Ha curato la pubblicazione di “Mezzogiorno e globalizzazione” (onde serene 2004), “Repressione e diritto al dissenso” (Gue/Ngl 2019), “Giovani, ribelli e sognatori” (Casa del popolo 2023), “Police Abolition” (Momo 2025), “800 miliardi per dire no alla fortezza Europa” (Left 2025)

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