di Giuseppe Pittà*

 

La costruzione dello scheletro di una grande opera, sorta di grattacielo che sfida le convenzioni e le normalità e si spinge in alto

 

Giuseppe Pittà

Alla fine delle piccole immagini di raso bianco c’è il desiderio di rileggere con calma, ripercorrere gli snodi, le curve e tutti gli accessi della strada. Ritrovare le piccole magiche emozioni, i salti del respiro, le visioni di mille desideri, che si complicano di mille nodi, i fumi negli occhi, gli odori che richiamano le parole e le loro pause. Questo lavoro di Manuela Petescia mi ha richiamato molte visioni, riportandomi ad antichi palpiti. Uno in particolare, le manovre, quasi tutte mentali, del buon vecchio Nabokov e la sua Lolita, con il profumo incalzante del borotalco e del sapone, che si lasciano scivolare dai sentieri d’acqua della doccia. La visione prima di tutto e di tutti. Il pensiero della carezza, il tocco della fantasia, la dolcezza in tutte le direzioni, ma anche l’energia di un dolore, la ferita, il taglio della carne, il pulsare di un mondo che non appartiene al mondo intero, ma solo e soltanto a pochi.
È follia? Forse si, forse è la dismisura meravigliosa della follia, il risultato di chi conta i pori, di chi sogna le infinite profondità delle correnti marine. Ma anche la Lolita sgambettante del buon Stanley, che ha voluto calcare il medesimo palcoscenico, smarrendosi nei gorghi e ritrovandosi nei medesimi vortici.
Amo certe tue visioni, Manu, perché le sento mie, una specie di forza di attrazione dalla distanza. Come concepire il massimo del nostro universo nella forza straordinaria del nucleo, quello al centro di noi stessi, noi che abbiamo conosciuto la specialità della casa, avvolgendoci nei corpi e nei pensieri e nella costruzione reale del desiderio. Perché è lì, nel nucleo centrale, che vive il senso dei sensi. Percepisco la costruzione dello scheletro di una grande opera, una sorta di grattacielo, che sfida le convenzioni e le normalità e si spinge in alto, solo per guardarci minuscole formiche e farci guardare, quasi in un inchino a chi ha compreso la direzione del tempo.

Ho trovato stanze amiche in questa tua narrazione, un gioco di luci, un abbraccio perpetuo con le sensazioni, la più profonda santità della pelle. Un gran bel sentire. Grazie. Rileggerò e ti racconterò di certe visioni, tra i respiri contratti dell’unico Divin Marchese, le curve dolcemente (im)pure di Rodin e il dono apparentemente freddo di Canova. Tutto nel corpo, che non è mai soltanto la scatola dello spirito, ma la vera invenzione, ché senza il corpo sarebbe davvero inutile il peccato e dunque la magnifica prospettiva del peccare.
E tutto si muove nel gioco della Società, le convenzioni nell’esistere, le mille contraddizioni delle strade, le percorrenze a volte spietate altre miracolose, le vicinanze asfissianti, le distanze abissali, le povertà e le ricchezze. Un viaggio che vive di conflitti e maldicenze, dove il vortice è la velocità del passo, la fredda composizione degli istanti, senza una sosta, senza uno sguardo, senza un solo piccolo umile destino da vero umano.

La malvagità regna incontrastata, siamo portatori di dolori, protagonisti di affanni, di colpi di reni per giungere primi e ferire e costruire i segni del potere, di una vittoria da esibire e far pesare in ogni rapporto, in ogni contatto, in ogni dove. Ma siamo anche carne e pensiero ed abbiamo guizzi speciali. Ci perdiamo per nostra volontà e lo facciamo ogni volta per ritrovarci. Siamo esseri che nuotano sempre nelle acque pericolose in compagnia di noi stessi, squali famelici, e gli altri, altrettanto squali ed altrettanto famelici.

Sembrerebbe di narrare disastri, un buco nero che tutto ingloba e distrugge. Eppure abbiano natura di Fenice, la rinascita è una cifra che ci appartiene. Così spesso troviamo strani diamanti sui sentieri, pietre speciali che donano luci e misteri e piace avvolgerci di pensieri che fanno colmi di scintille delicate e deliziose. Siamo ancora vivi e piace sentircelo dire.
Il tuo romanzo, Manu, sfiora con i polpastrelli le storie dei tanti, portandoli alla consapevolezza di una nuova consistenza. Sono storie che serve riemergano dalle sabbie mobili della consuetudine, che tornino per essere osservate e magari comprese e magari fatte ancora nostre, da recuperare perché sono parte di tutti noi. Ho seguito i tuoi punti di salita, le discese, le corse e gli affanni.

Ho accolto le pause, perché serviva sostare, fermarmi come in un’oasi a meditare e bere da una fresca sorgente. Tutto mentre fuori l’aria è piena di un fuoco che brucia il respiro, che porta l’aumento dei battiti del cuore e lascia un residuo di cenere, che si deposita su ogni visione positiva. Ed ho trovato tra le parole, quelle che mi hanno fatto bene, perché negli animi più sensibili esistono, nonostante tutto e tutti, le svolte luccicanti di un nuovo mondo, quello in cui abitano le migliori soluzioni, quelle mai veramente oscure e terribili, quelle che raccontano di rinascite e di splendide, meravigliose aurore.

Grazie, Manuela, per aver scritto questo libro, per averlo pensato, per averci permesso di carezzare le tue parole.

* Giornalista, saggista.

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