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sabato, Aprile 27, 2024

Quale futuro per i cattolici democratici?

EditorialiQuale futuro per i cattolici democratici?

di Paolo Frascatore

Esattamente dieci anni fa scrissi questo articolo per “Il Domani d’Italia”. Lo ripropongo oggi per la straordinaria attualità, soprattutto dopo le ultime vicende del Partito Democratico e delle primarie.
Ho letto con molta attenzione, non senza qualche punta di amarezza, l’articolo dell’amico Pio Cerocchi sul suo bolg “L’Avviso” e su “Il Domani d’Italia” telematico, dal titolo “La fine del cattolicesimo democratico”.

Paolo Frascatore

Il titolo non lascia scampo ad illusioni e a desideri, ma è solo un tentativo forte per risvegliare le migliori coscienze, assopite dal secolarismo e dall’individualismo sfrenati.
Non sono tra quelli che ritengono questa lunga fase della politica italiana, apertasi nel 1994, come transizione per cui occorra solo aspettare l’avvento di tempi migliori.
L’attendismo, sia tattico, sia pigro, non appartiene alla storia dei cattolici democratici.

Ecco che mi pare, allora, dover raccogliere alcuni punti che Cerocchi mette in risalto nelle sue riflessioni.
Inizio da quella propensione a mediare (tipica ad esempio dell’UDC di Casini, ma anche di alcuni amici del Partito democratico) che ha preso il sopravvento sulla capacità di elaborare una proposta originale e d’avanguardia.
Tuttavia, esistono due modi di mediare: la mediazione per il potere e quella che nasce a seguito di una proposta politica o programma di governo scaturenti da valori e ideali.
La mediazione può essere, dunque, negativa o positiva.

Non per essere retrospettivo, né petulante, ma la storia occorre sempre guardarla per affrontare il futuro con coraggio, e quindi i riferimenti valgono come insegnamenti: l’esempio classico (almeno per quanto concerne il nostro Paese) della mediazione negativa (ossia per la conquista del potere) è senza dubbio il doroteismo; la positività della mediazione politica è quella che opera Aldo Moro prima con i governi di centro sinistra negli anni sessanta, poi con quelli di solidarietà nazionale negli anni settanta.

Quale la differenza? Probabilmente per i non addetti ai lavori non esiste alcuna differenza, ma lo spartiacque è profondo e significativo.
La mediazione dorotea si svolge tutta all’interno della conquista o del mantenimento del potere: il doroteismo non ha ideali, o se li ha li usa in funzione della gestione del potere, per cui rifiuta sempre in principio il discorso delle nuove alleanze. Queste ultime, per i dorotei, sono valide solo in caso di necessità e, comunque, debbono servire per la conservazione e la gestione del potere.
La mediazione morotea, invece, si svolge all’interno dell’obiettivo politico supremo: quello degli interessi generali del Paese. Da questo punto di vista, anche la politica del confronto con il Partito comunista è una forma alta di mediazione politica: il confronto ideale con la maggior forza politica di opposizione, consente a Moro la ricerca di punti in comune individuabili nel disagio economico-sociale dei meno abbienti e delle categorie più sfortunate. Questa strategia fa di Aldo Moro il politico capace di raccogliere le istanze e le esigenze che si levano dalla società per trasformarle in una sorta di sintesi più alta degli interessi. Si può dire (parafrasando Zaccagnini) che per Moro “il potere non è il fine, ma il mezzo” per corrispondere alle attese della gente.
Il problema che solleva Cerocchi nel suo articolo, ossia che “a forza di mediare si è finito per smarrire le motivazioni originarie dell’impegno politico d’ispirazione cristiana”, va quindi inquadrato nell’ottica della concezione dorotea.

Infatti, Cerocchi non manca di ricordare come “….spesso si è mediato per motivi puramente tattici o, peggio, per la tutela di posizioni e di storie personali.”
Tralascio in questa sede gli altri punti evidenziati da Cerocchi, perché saranno motivo di ulteriori approfondimenti, per fermare l’attenzione sulle motivazioni originarie dell’impegno politico cattolico democratico.
A me pare che si debba partire da un assunto (e volutamente non cito l’autorevole autore, ma gli addetti ai lavori sanno) secondo il quale non c’è “incompatibilità assoluta tra la fede cristiana vissuta con impegno e con lealtà e l’impegno politico. Non c’è contraddizione a priori”.
Il discorso è ampio e potrebbe indurre molti a catalogare tale affermazione nel solco di quell’antilaicità della politica che è stata abbondantemente superata anche grazie alla cultura dei cattolici democratici.

Intendo per questo porre l’attenzione su un punto, che tra l’altro è attualissimo, e che formulo nel modo seguente: quanto ha inciso sulla mancanza di moralità pubblica la separazione (che si badi è cosa diversa dalla distinzione) tra fede e politica?
In più di una circostanza pubblica ho sostenuto che “la politica senza una forte ispirazione cristiana si riduce a mero professionismo, ossia a puro esercizio del potere”.
Lascio ai lettori commentare tali riflessioni, quello che mi preme sottolineare in conclusione è proprio il monito dell’amico Cerocchi di ritornare alle motivazioni originarie dell’impegno politico dei cattolici democratici. E su questo occorrerà sviluppare una doppia riflessione: da un lato, la validità dell’attuale sistema economico mondiale e, dall’altro, il rinnovamento (profondo) della Chiesa cattolica.

Il futuro dei cattolici democratici si giocherà su questi due fronti: se saremo ancora in grado di scardinare il vecchio, il cancro di strutture che impediscono l’affermazione integrale della persona, allora l’impegno dei cristiani in politica non solo continuerà, ma sarà nuovamente protagonista.

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