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Colletorto, i fuochi di Sant’Antonio Abate sulle ali della memoria tra riti pagani e devozione cristiana

CulturaColletorto, i fuochi di Sant’Antonio Abate sulle ali della memoria tra riti pagani e devozione cristiana

di Luigi Pizzuto*

“Saucicce e pasc’tecciotte, vine nòve e vine còtte, pure l’osse du presutte, Sand’Andone ze pigghje tutte”. “Sand’Andone nu passe de vove”. “Sande Laurenze ca calure, Sand’Andone ca ielature, tutt’edduje poche durene”. S’infiamma così, sulle ali della memoria, il culto del fuoco. Il carattere e la morfologia cultuale di questo rituale tradizionale, radicato nell’area, nei ricordi di ieri più significativi ancora resiste. Nel momento in cui la pandemìa fa sentire i suoi colpi più dolorosi, il 17 gennaio 2021, giorno della festa di Sant’Antonio Abate, è vietato accendere i fuochi nei vari quartieri dell’abitato, per evitare ogni forma di assembramento che possa mettere in pericolo la vita umana.

Nonostante i divieti contro la diffusione del Coronavirus, la sintassi dei ricordi abbraccia il sapere locale. Ed è capace di narrare, con un lessico coloratissimo, la bella storia di una cultura immateriale, antropologica, animata da non pochi momenti di curiosità. “Nei tempi passati – precisa un anziano del luogo – la tradizione era decisamente più genuina e spontanea sul piano religioso e sociale. Gli anziani, e dunque le persone più esperte, nei vari quartieri del paese e davanti alle chiese, avevano il compito di comporre la legna raccolta dopo tanta fatica, nel rispetto di una tradizione piena di insegnamenti”.

Gli anziani tenevano unito il vicinato con gioia e nobiltà d’animo. Dopo la Santa Messa vespertina, il parroco benediva l’accensione del primo fuoco tra la torre, Palazzo Rota e il campanile del Battista tutto in festa. All’epoca tantissime erano le persone nei quartieri che facevano sentire la loro presenza intorno alle fiamme. Al momento dell’accensione, quando le lingue di fuoco salivano in alto, era tradizione interpretare il futuro mediante la lettura del movimento delle scintille. Dal moto delle faville si prevedeva l’andamento del nuovo anno. Si bruciavano cose superflue e pensieri cattivi.

Le fiamme purificavano. Divoravano il male e tutto ciò che doveva stare alle nostre spalle. In nottata si prelevava una po’ di brace ardente per portarla nel proprio focolare, convinti di poter scacciare streghe, diavoli e malefici di ogni tipo. Anticamente, all’indomani della festa, le donne più povere raccoglievano le abbondanti ceneri per le “culate”. Per un lungo periodo il lavaggio dei panni era assicurato. Ognuno aveva nella propria stalla la classica immaginetta del Santo per proteggere il lavoro nei campi, gli animali e la vita dei propri familiari. Si chiedeva così protezione per la vita contadina, semplice e povera, ricca di fatiche e sacrifici nel suo divenire, con tanta attenzione verso la povertà. Per i poveri non mancava mai un posto a tavola. L’antica morfologia del falò ancora oggi resiste. E’ il simbolo di non poche esigenze valoriali. La sua forma conica tende a far crescere il rispetto per la terra degli uomini e il legame devozionale con l’Alto dei Cieli. Tali regole vengono osservate nel corso dell’allestimento.

La forma conica termina con un lungo palo di quercia, verticale, proteso, appunto, verso l’alto. Deve essere chiaro il cammino di tutti per il trionfo del bene comune. Da qualche tempo sulla sommità del falò vengono appesi, come trofei, la testa, pezzi di lardo e piedi del maiale, in ricordo di vecchie pratiche cultuali. Nel Medioevo, infatti, strisce di lardo venivano applicate sulla pelle umana per curare il fuoco di Sant’Antonio. Malattia dolorosissima, corrispondente all’Erpes Zoster. Il potere della sacralità veniva affidato al maiale, protagonista del sistema alimentare. Il maiale dava ad ogni famiglia il cibo quotidiano. Chiunque aveva una piccola stalla per crescerlo accuratamente ed ingrassarlo. Dalla testa ai piedi, nulla veniva buttato dell’animale. Perfino il sangue era usato per dare vita alla “leccamecche”. Una sorta di nutella dei tempi andati, prelibata per i più piccoli. Anche Sant’Antonio aveva il suo porcellino, a cui ognuno dava da mangiare. Gli venivano mozzate le orecchie per riconoscerlo. Tutto infiocchettato girava liberamente per il paese. Si dice tuttora che il maiale era “a grasce da case”. Difeso a denti stretti. Rischiando la propria vita. Come accadde nel 1943 durante l’occupazione tedesca, quando, nel corso di un terribile rastrellamento, alcune donne, sulla scalinata del monastero, fecero di tutto per scongiurare la requisizione. Una curiosità. Nella vicina San Giuliano c’è Porta Sant’Antonio Abate, una piazza e una chiesa dedicata al protettore degli animali.

Qui, quando il maiale aveva la terribile “febbre rossa”, che di certo causava la morte, il proprietario chiedeva grazia portando una caraffa d’olio ai piedi dell’altare marmoreo, donato dal marchese di Colletorto, Bartolomeo Rota. Con un santino in mano si pregava così: “ Gloriosissimo Sant’Antonio, benedite il nostro lavoro e tutto ciò che serve per la nostra alimentazione. A Campobasso, nella scena dei Misteri, creata da Paolo Saverio Di Zinno, i diavoli, agitando la coda di vitello, creano scompiglio e non poche curiosità. E’ la scena che attrae di più i turisti. I corpi sospesi accentuano il contrasto tra diavoli, angeli, Santo e la bella donzella, che incarna tutte le tentazioni del demonio.

A Napoli, infine, un intero borgo dedicato al Santo nasce nel 1370, per volontà della regina Giovanna I d’Angiò. Ma il fluire della storia continua. Non si ferma qui. “Luigi Pizzuto, Diavoli, animali e Chiesa di Sant’Antonio nel culto del fuoco a San Giuliano, Colletorto, 2011”, “Enzo Nocera, Sant’Antonio Abate culto e tradizione nel Molise, Ed. Enne, 1992”, “Mario Buonoconto, Napoli esoterica, Newton Compton Editori, 1996”, “Luigi Pizzuto Gaetano Nasillo, Il culto del fuoco a Colletorto, Cortometraggio, 2020”, “Elia Rubino, Il rito del fuoco, Colletorto, 2014”, “Domenico Meo, Riti e feste del fuoco in Molise, Volturnia Edizioni, 2008, “Luigi Pizzuto, Una tradizione che resiste, Etnostoria Garganica, Riv. II n.1, 2000”.

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