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giovedì, Marzo 28, 2024

Mani Pulite, l’assalto giudiziario al cielo della politica

AttualitàMani Pulite, l'assalto giudiziario al cielo della politica

di ITALO DI SABATO

Martedì 24 marzo ha inizio la serie televisiva “1992”, prodotta da Sky,  che ripercorre la vicenda giudiziaria conosciuta come “tangentopoli” frutto dell’inchiesta del pool di “Mani Pulite”  con il conseguente definitivo  passaggio politico e istituzionale dalla I alla II Repubblica. Una ulteriore operazione commerciale di esaltazione del potere giudiziario.

L’inchiesta “Mani Pulite”  ha rappresentato l’apice del giustizialismo, dello strapotere dei Pm, dell’abuso della carcerazione preventiva, della trasformazione dei magistrati in eroi-giustizieri popolari, immacolati e impavidi.

Le violazioni e gli abusi sono gli stessi  usati nella stagione dell’emergenzialismo negli “anni di piombo”: mandati di cattura “a grappolo”, lievitazione delle imputazioni in base all’estensione dei concetti di “concorso” e “contiguità”, abuso della carcerazione preventiva, torture psicologiche agli inquisiti etc.

La novità è il fatto che ora le vittime sono i potenti di ieri, il che produce un’ipermediatizzata, collettiva richiesta di crucifige. La magistratura inquirente ne è come inebriata, la “consonanza con la società civile” la porterà ben oltre i limiti del suo “mandato speciale” anti-governativo.

Il contesto storico

Con il crollo del “socialismo reale”, terminata l’epoca del dominio bipolare Usa-Urss, il potere finanziario  poteva finalmente liberarsi del vecchio assetto costituzionale. C’era necessità, da parte del capitale in via di completa globalizzazione, di avere uno stato (dalla mano) meno “pesante” dal punto di vista fiscale, burocratico e tangentizio. Il costo della corruzione (il “keynesismo clientelare” dello stato democristiano) era troppo elevato, e con una  spesa pubblica elevata che non permetteva l’entrata in Europa.

La crescita elettorale di forze politiche come la Lega Nord era una chiara domanda di “sovversione dall’alto” da parte delle nuove imprese del nord, quelle basate sul lavoro flessibile e l’export internazionale, ormai stanche di lacci e lacciuoli. Un capitalismo d’assalto  interessato a sguinzagliare i procuratori  lasciando che magistratura e potere politico arrivino allo scontro, per imporre il ricambio di classe dirigente a colpi di imputazioni e custodia cautelare. La sovversione dall’alto avviene facendo leva sui contrasti interni allo “stato autoritario di diritto” costruito con la legislazione emergenzialistica negli anni dei governi di unità nazionale.

Per raggiungere questo obiettivo è stato necessario gettare le basi per avere uno stato forte, un parlamento che non fosse più il luogo sul quale si riflettono gli antagonismi presenti nella società, un governo capace di gestire l’emergenza permanente.

Per realizzare questa “sovversione dall’alto” tre forze vennero mobilitate:

1.           la fazione politica e confindustriale che hanno accettato le regole imposte dalla globalizzazione neoliberista che ha prodotto con forte ritmo le misure di riordino economico, giocando implacabilmente su svalutazione e inflazione, sulla riduzione del salario reale e lo smantellamento del welfare, le privatizzazioni e le politiche repressive al fine di risolvere l’urgenza;

2.           la magistratura come taske force degli interessi della globalizzazione liberista. Certo i magistrati con la loro azione sembravano attaccare non semplicemente i corrotti, ma le stesse forme del funzionamento corrotto della democrazia parlamentare. Perciò essi sono stati appoggiati entusiasticamente dalla gente. Dimenticando, però, che ogni democrazia in un sistema capitalistico è sempre un ordinamento della corruzione e che ogni nuova proposta di governo dentro un ordinamento capitalistico non potrà essere altro che una forma diversa e equivalente di corruzione. Finché ci sarà capitalismo ci sarà una democrazia corrotta e questo la magistratura lo sa;

3.           l’asse Segni-Occhetto sui referendum elettorali. Si è trattato di una emanazione diretta della confindustria, il prodotto del trasformismo politico degli strati di “notabilato” della vecchia struttura politica con un sostanziale accordo con le nuove correnti del populismo, in primis la lega. Il fine dei “referendari” è stato quello di garantire, nel nuovo ordine costituzionale della II^ Repubblica, il predominio della finanza attraverso la trasformazione del parlamento in organo di notabili (maggioritario) e l’efficacia conservativa del governo. Queste sono state anche le ragioni profonde che hanno prodotto le fortune elettorali di Berlusconi e Bossi da un lato e di Di Pietro dall’altro fino al evento dei governi di “larghe intese” di Monti, Letta e Renzi, che hanno rappresentato e rappresentano gli interessi della grande finanza.

In questo contesto il  nuovo nemico pubblico diventa  “l’inquisito”, il politico corrotto. I potenti che fino a qualche mese prima avevano non solo governato, ma  combattuto e sconfitto – con la complicità della magistratura, a colpi di carcere e repressione – qualsiasi opposizione sociale, divenivano i nuovi nemici pubblici.

Prima del periodo di “Mani Pulite”, la magistratura nella sua maggioranza è stata schierata a difesa dei privilegi e dei privilegiati, fungendo da apparato di repressione nei confronti dei movimenti sociali e antagonisti e disvelando, nei momenti cruciali dei primi decenni della storia repubblicana, la reale natura di uno Stato che, con i mezzi più diversi, ha represso, spesso brutalmente, il movimento operaio e contadino e tutti coloro che si battevano per un’effettiva applicazione dei principi costituzionali.

Le inchieste a carico dei “potenti”, fino al 1992, sono state rarissime e quasi sempre bloccate dalle gerarchie giudiziarie in aperta collusione con chi governava il paese. Con l’inchiesta “Mani Pulite”, la situazione si è indubbiamente modificata e si è ripristinato il valore della giurisdizione, indipendentemente da chi era coinvolto.

Il pool Mani Pulite

Non si può certo dire che il  ciclone giudiziario passato alla storia col nome di “Mani pulite”,  sia nata all’insegna della trasparenza. Proviamo a ripercorrere le tappe  di questo “sconfinamento”.

Partiamo dalla vicenda del “decreto Conso”, emesso il 6/3/1993 allo scopo di depenalizzare il finanziamento illecito ai partiti. Nel linguaggio della propaganda manipulitista, si tratta del famoso “colpo di spugna“. Il pool inizia a fare pressioni, prendendo platealmente le distanze dall’operato del governo, facendo comparsate su tutte le tv nazionali. La conseguenza è che il presidente Scalfaro non firma la conversione in legge. Il Procuratore Capo Saverio  Borrelli, a chi gli chiede perché dei tecnici esclusivamente preposti a intervenire sui fatti-reato indichino invece valori di riferimento collettivi e si preoccupino del consenso, risponde appellandosi al “fattore morale”:

Un conto è lavorare con la consapevolezza o l’illusione di trovarsi in consonanza con la coscienza legalitaria del popolo in nome del quale pronunciamo i nostri provvedimenti, altro è sentirsi circondati dalla sfiducia o dal disprezzo (“Corriere della sera”, 3/10/1993).

Il pool ricorre alla stessa strategia durante la “parentesi” del governo Berlusconi. Il 27/3/1994 , dopo una parossistica campagna elettorale condotta a colpi di messianesimo degradato, di vetero-anticomunismo e di “garantismo” strumentale, il “clan capitalistico” perdente riesce a impadronirsi dell’esecutivo. Subito dopo l’insediamento del governo, Borrelli comincia a descrivere scenari di apocalisse istituzionale e folle oceaniche che domandano a gran voce il governo dei giudici:

…dovrebbe accadere un cataclisma per cui resta solo in piedi il presidente della Repubblica che, come supremo tutore, chiama a raccolta gli uomini della legge. E soltanto in quel caso noi potremmo rispondere. Non basterebbe certo… una folla oceanica raccolta sotto i nostri balconi. Ma a un appello di questo genere, del capo dello Stato, si potrebbe rispondere con un “servizio di complemento”, questo sì… (“Corriere della sera”, 1/5/1994)

Trascorrono pochi mesi, e il pool scatena la memorabile canea contro il decreto Biondi sulla custodia cautelare. Si tratta in effetti di un provvedimento squilibrato se non iniquo, poiché esclude la possibilità di carcerazione preventiva soprattutto per determinati reati (finanziamento illecito ai partiti, corruzione etc.) in genere commessi da soggetti “forti” (politici, imprenditori), lasciando al loro destino la stragrande maggioranza dei soggetti deboli.

Il 13/7/1994 gli italiani assistono a un proclama televisivo di Di Pietro a nome del pool, praticamente a reti unificate, consistente in una ricattatoria richiesta di essere trasferiti ad altro incarico. Per Toutatis e per Belenos, tutti in piazza contro il “decreto salvaladri”! Quest’ultimo viene ritirato in virtù di un’indecente gazzarra demagogica e mediatica.

A Cernobbio  nel settembre del 1994,  ad un convegno della Confindustria, Di Pietro presenta una bozza di disegno di legge, ufficialmente scritta da Davigo. Si tratta di una proposta interamente basata su incentivi alla delazione: perdono per chi confessa tutto, inversione dell’onere della prova per tutti gli altri.

Al di là degli ovvii contenuti, l’impressione è che il pool voglia condizionare, se non proprio usurpare,  il potere legislativo (di solito riservato a chi ha un mandato elettorale), e dialogare senza intermediari con la grande imprenditoria.

Solo Gerardo  D’Ambrosio, vice procuratore capo e vicino politicamente al Pds,  prende apertamente le distanze, dichiarando: “Queste cose le devono fare e gestire i politici. Mi sembra che questa iniziativa debordi un po’…“. Pochi giorni dopo, ad un convegno organizzato dalla rivista “Micromega”, Piercamillo Davigo deborda ancora un po’ e promette di “rivoltare l’Italia come un calzino“.

Più o meno negli stessi giorni, il guardasigilli Biondi, in seguito alle ripetute “fughe di notizie” e violazioni del segreto d’indagine, ordina un’ispezione ministeriale delle attività del pool. Il 21/11/1994 Borrelli scrive una lettera al Csm, chiedendo

    se in presenza di anomalie penalmente rilevanti nella conduzione delle inchieste amministrative, i magistrati del pubblico ministero abbiano l’obbligo ovvero la facoltà di promuovere l’iscrizione della notizia di reato nel registro degli indagati.

Alle orecchie di molti commentatori, questa suona come un’intimidazione agli ispettori. In data 5/5/1995 Filippo Mancuso, ex-magistrato e ora guardasigilli dell’esecutivo “tecnico” succeduto al governo Berlusconi, avvia un’azione disciplinare contro Borrelli, D’Ambrosio, Colombo e Davigo. Nella sua lettera alla procura generale della cassazione scrive:

    Atteggiamenti, quelli così assunti dai predetti quattro magistrati… [che] dimostrano fino all’evidenza la partecipazione di tutti e quattro ad una maligna e studiata iniziativa di insieme, con valore di intenzionale sbarramento intimidatorio alla libertà morale degli ispettori […] si è di fronte ad un enorme caso di abuso continuato della posizione d’ufficio. (Lehner 1995, op. cit., pp.212-213)

Quanto ai risultati dell’inchiesta, ecco uno stralcio della relazione degli ispettori:

    Non si escludono possibili eccessi e forzature, soprattutto in riferimento all’uso del carcere preventivo. Non si esclude che in alcune vicende sia mancata quell’umana pietas che non può e non deve mai essere disgiunta dalla giustizia. Potrebbe anche essere mancato, a volte, quel massimo grado di prudenza e di misura che deve, in ogni caso, sempre richiedersi quando si esercita il potere di incidere sulla libertà altrui. Sarebbe stato forse anche necessario un maggiore distacco dalla notorietà… (“La Repubblica”, 10/5/1995)

Il linguaggio è molto cauto, schermato da una barriera di “forse” e di condizionali, ma la critica è chiara. Il giorno successivo Mancuso annuncia in Senato che, sulla base di esposti e denunce da parte di avvocati difensori , ordinerà ispezioni in altre Procure. In particolare, cita 14 casi di presunti abusi.

Il pool e la stampa manipulitista lo attaccano con violenza. Per il fatto che tra le procure da ispezionare  ha inserito quella di Palermo, i deputati del Pds Sandra Bonsanti, Pietro Folena e Pino Arlacchi accusano Mancuso di collusione con la mafia (cfr. “Corriere della sera”, 12/5/1995). Nessuno tocchi il dottor Giancarlo Caselli!

Passa qualche mese, e a ottobre emergono nuovi elementi sulla condotta abusiva del pool in relazione all’avviso di garanzia a Berlusconi. Mancuso avvia una nuova azione disciplinare contro Borrelli, per violazione del segreto investigativo e per aver rilasciato false dichiarazioni agli ispettori. Stavolta gli attacchi e le ingiurie lo travolgono: su pressione congiunta del terzo e del quarto potere, la maggioranza parlamentare lo “sfiducia” e lo manda a casa. Quanto a Borrelli, il Csm lo proscioglierà in data 19/7/1996.

I procuratori d’assalto sfuggono di mano, la loro visione ierocratica li porta a esagerare, a porre in campo strategie irrazionali.

Le inchieste del pool di  mani pulite non hanno agito nel vuoto, ma nel crogiolo d’interessi e schieramenti internazionali che vedevano con favore la scomparsa dei vecchi mediatori politici della Prima Repubblica e della loro base sociale, l’economia mista, le partecipazioni statali. Quelle “sacche di socialismo reale”, come le aveva definite Francesco Cossiga, facevano gola al capitale internazionale. Si apriva la grande partita delle privatizzazioni. Liberarsi poi dell’uomo di Sigonella e della politica estera mediterranea di marca democristiana faceva gola all’amministrazione Usa. La domanda è un’altra: che ruolo ha giocato in questa partita la sinistra? Quello degli utili idioti.

La figura di Antonio Di Pietro

La figura di Antonio Di Pietro meriterebbe una  lunga trattazione: osannato come un salvatore della Patria dalla plebe (“il popolo dei fax”) e soprattutto dai vari agitatori di forche e cappi, vincitore di ogni sondaggio di popolarità, difeso e coccolato dai media che lo corazzano da qualunque critica.

Eppure ce ne sarebbero di domande a cui dovrebbe rispondere, in primis sui veri motivi delle sue dimissioni dalla magistratura (6/12/1994), le divergenze col resto del pool a proposito dell’avviso di garanzia a Berlusconi. Infatti nel lontano 1994, il Pm divenuto l’emblema di Tangentopoli tentennò, fino quasi ad accettare il ministero degli Interni offertogli da Silvio Berlusconi. Proposta che rifiutò dopo che qualcuno lo avvertì dei guai giudiziari in arrivo per il magnate di Arcore.

Anche le “leggende” sulle origini di Antonio Di Pietro muovono da una zona grigia: alle radici contadine, ai lavori da migrante, segue una fulminea laurea in giurisprudenza e l’ingresso in polizia divenendo famoso negli uffici della questura per i suoi  “metodi spicci”. Poi l’entrata in magistratura. Costruisce relazioni con richieste di favori, scambi, segnalazioni. Un modo di fare conosciuto talmente bene da divenirne, ad un certo punto, un micidiale fustigatore. L’affossatore di quella “Milano da bere” a cui si era per lungo tempo dissetato. Arriviamo al punto. Eliminata buona parte del ceto politico messo sotto inchiesta, Tonino si toglie la toga e ne prende il posto.

In una qualsiasi democrazia liberaldemocratica seria, dove vige la separazione dei poteri, una tale investitura avrebbe sollevato seri interrogativi e durissime resistenze. Invece tutti lo temono, la destra berlusconiana cerca di accaparrarselo. In fondo è grazie a lui se il “partito azienda” si è visto spianata la strada del potere. Sul fronte opposto D’Alema lo “costituzionalizza” facendolo eleggere nella circoscrizione blindata del Mugello, la più rossa d’Italia. Da li la scalata politica di Antonio Di Pietro prima come co-fondatore dei “Democratrici” e poi del partito personale “Italia dei valori”.

La fine del garantismo e le responsabilità della sinistra

Troppi a sinistra, sono stati “indulgenti” e hanno taciuto di fronte all’uso strumentale della custodia cautelare o all’utilizzo acritico delle dichiarazioni dei cosiddetti “collaboratori di giustizia” mentre sarebbe stato doveroso, a salvaguardia dello Stato di diritto, esprimere una critica decisa, costruttiva e non delegittimante. Tutto sommato, anche per una parte di sinistra, colpire politicamente i “potenti” – cosi come i movimenti antagonisti nel decennio precedente – era un obiettivo da raggiungere a tutti i costi, anche attraverso lo strumento giudiziario e limitando le garanzie previste dal codice.

Questo modo di concepire il rapporto tra politica e magistratura si è sempre risolto, lo dimostra la storia, a favore dei poteri forti e a scapito dei soggetti socialmente ed economicamente più deboli nonché dei movimenti politici e sindacali.

Antonio Bevere,  magistrato e direttore della rivista “Critica del diritto”, scrisse  un articolo dal significativo titolo “Il popolo di sinistra non deleghi ai magistrati il pensiero critico: “In piena offensiva berlusconiana, si avverte l’esigenza di difendere dignità e indipendenza della magistratura senza comunque riconoscerle il ruolo di superpotere comunque buono e affidabile e senza accettare la funzione riformatrice della repressione […] Ad essa è seguita, da parte della pubblica opinione progressista, una domanda morale diffusa, l’aspettativa di un’autorità che, nel campo politico, istituzionale e imprenditoriale, distinguesse i buoni e i cattivi. Questa autorità è stata individuata nella magistratura [….] L’illusione della democrazia diretta, attuata attraverso questa giurisdizione, ha avuto due negativi effetti politici: la deresponsabilizzazione partecipante del popolo di sinistra e la depoliticizzazione della democrazia

Le considerazioni di Bevere ci aiutano a ricordare che è indispensabile uscire da questa spirale perversa che ha caratterizzato la sinistra per questi lunghi anni, che è fondamentale riappropriarsi delle tematiche del garantismo e ribadire sempre e comunque, che a fronte di un emergenza democratica, la via di uscita non può essere ricercata in scorciatoie giustizionaliste.

Solo riaffermando con forza i princìpi dello Stato di diritto,  nel criticare gli eccessi, nel riflettere su come l’aver demandato il cambiamento politico e sociale alla magistratura abbia inciso negativamente non solo sulla battaglia politica istituzionale ma anche sull’amministrazione della giustizia, sarà possibile ripristinare un corretto rapporto tra magistratura e cittadini e opporsi con maggiore credibilità, alla politica di chi oggi calpesta i valori costituzionali.

L’estenuante richiamo al principio di legalità impone, oggi,  un bilancio ed una decostruzione del concetto. Il richiamo alla legalità da tangentopoli ad oggi, oltre a venti anni di Berlusconismo è servito da legittimazione al passaggio brutale dallo stato sociale a quello penale. La legalità è stata in campo politico – giudiziario il corrispettivo dell’iper liberismo in materia economico – sociale. Un contesto dove i forti sono diventati più forti e i deboli più deboli.

Per questo è saggio almeno accogliere il suggerimento di Zarathustra: “ diffidate di coloro nei quali è potente l’istinto di punire

Italo Di SabatoOsservatorio sulla Repressione

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