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venerdì, Ottobre 3, 2025

“Il mio viso dopo la morte”: 1° marzo 1938, addio a D’Annunzio

QD"Il mio viso dopo la morte": 1° marzo 1938, addio a D'Annunzio

di Angela Antonecchia

” Venite a guardare il mio viso due o tre ore dopo la mia morte, allora soltanto allora io avrò il viso che mi era destinato,
immune dagli affanni , dalle fatiche, dai patimenti, dagli innumerevoli eventi che forzò e forza e forzerà pure in estremo il mio disperato coraggio.”

Così annotava D’Annunzio nel Libro segreto, un suggerimento lasciato a chi avesse voluto cercare in lui, oltre al personaggio storico, l’uomo.

Uu uomo che sa che solo dopo la morte potrà dismettere la maschera di personaggio troppo spesso screditato per le sue gesta un po’ eccessive, un po’
folli, che fece dell’arte una forma di vita.
Forse in questo gesto estremo c’era la sua speranza che venisse considerata nulla la sua vita spesa in un periodo di crisi di valori, per dare il giusto risalto alla sua opera. Ma ancor oggi molti sono coloro che accennano espressioni di disappunto e di diniego al cospetto del suo nome, fermi a una superficiale analisi delle sue gesta. O forse è il concetto di maschera di vita che si fa fatica ad accettare.

Riporto una sua lettera scritta a Donatella del 30 luglio 1910.

Soltanto l’assoluto riposo potrà guarirmi.

Soltanto l’assoluto riposo potrà guarirmi. Sono malato più che tu non creda.
Qualche indizio allarmante mi costringe ad evitare qualunque eccitazione…E tu sai
che non possiamo rimanere l’uno accanto all’altra nella rinunzia.
Non abbiamo mai avuto questa forza . Tu lo sai.
Comprendi?
E’ tardi. E’ quasi mezza notte. Sono solo qui, nel gran silnzio.
Tu che fai?
Cerco di penetrare l’oscurità della sorte prossima.
Tutto è perduto? O tutto comincia?
Il cuore è stanco? O è ancora capace di attendere e lottare?
Io non ho un solo pensiero in me , che non sia cupo. La tristezza
è in ogni stilla del mio sangue, Stasera ogni coraggio è caduto.
Riavrò la mia salute, il mio vigore, la mia volontà , le mie speranze?
Non so.
Penso all’estate sorsa, ala nostra terrazza, alla nostra capanna , alla piccola stanza
chiara, al gran velario verde, alla tavoletta dove sedevamo, a tytta quella felicità
ora torbida ora tenebrosa…
Che turbine malvagio è passato su di noi?
Tutto è confuso nl mio spirito. Non vedo ancora nulla di definito.
Una sofferenza pesante mi opprime.
Ma non bisogna aver paura di soffrire; né bisogna , per la paura di soffrire, accettare
le cose mediocri…
Scrivimi. Dimmi quel che vuoi fare. Dimmi tutto.
Tu vedi che prendo la tua mano nella mia.
Piccola cara, perdonami. Forse io soffro più di te.
E forse tu lo senti. tu lo sai, perché mi dici che hai pr me una profonda pietà.
Mi serberai sul tuo petto il posto del mio riposo?
Che sarà di te? Che sarà di noi?
Piccol, piccola, quanto mi duole il cuore! Non risolvermi a salire nella mia
stanza, a coricarmi in quel letto triste come una bara.
Gabri

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