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venerdì, Aprile 26, 2024

Un ricordo di Mariangela Melato

AttualitàUn ricordo di Mariangela Melato

Mariangela Melato

Leggevo che negli ultimi anni Mariangela Melato si era molto allontanata dalla sua città, Milano. Diceva (in una bella intervista a Gianni Mura), forse esagerando, che la “Milano da bere” era diventata una “Milano da vomitare”. Parlava di una città sparita, con i suoi “tailleur eleganti, la bellezza segreta dei cortili, il calore della gente, il suo senso dell’ospitalità”.

Lei era nata nel quartiere di Brera, zona popolare e bohémien. Zona di studi, con la favolosa biblioteca e l’Accademia. La sua casa, in via Montebello, verso Porta Nuova, era stata una volta la sede dell’orfanotrofio. I martinitt, come erano chiamati gli orfanelli maschi. Martinitt erano Angelo Rizzoli, l’Edoardo Bianchi delle biciclette, Leonardo Del Vecchio di Luxottica. Le ragazze erano le stelline. Lei aveva studiato all’Accademia di Brera, poi aveva lavorato alla Rinascente di piazza del Duomo, e aveva mosso i suoi primi passi da attrice all’Accademia dei Filodrammatici e poi con Dario Fo. Tutti simboli della Milano bellissima, colta e commerciale, solidale e generosa, che piaceva a lei e che non ritrovava nella città “involgarita, piena di gente finta” degli ultimi anni.

Io ricordo Mariangela Melato in un altro luogo caratteristico di una Milano forse più contemporanea e confusa: il mercato rionale del sabato in viale Papiniano, specie di moderna Babilonia, luogo tra i più affollati del mondo, incredibile combinazione di lingue, razze, commerci, che parte sotto le mura del carcere di San Vittore e prosegue fino a piazza Cantore, con il quartiere di Porta Ticinese sulla sinistra, la stazione di Porta Genova sulla destra. Di fronte la vecchia Darsena con la fiera di Sinigallia, bazar a cielo aperto, eldorado per i cercatori di vecchi libri, dischi, locandine, gadgets antichi e moderni, e biciclette, ma anche luogo di storici scontri e coltellate, una trentina di anni fa, fra ragazzi dei centri sociali, punk, dark, skinheads.

Al mercato di viale Papiniano, dove in certe ore tocca guadagnarsi con i gomiti ogni centimetro di spazio, si trova di tutto, fra le rimanenze delle boutiques del centro e i capi smaltiti dai grossisti. I maglioni di cachemire, le camicie Brooks Brothers, le indistruttibili polo americane di Izod, i vestiti di Kenzo o di Byblos, le cravatte di lana di Hubert, le calze Burlington con il cerchietto metallico, ma anche fiori preziosissimi e carissimi, tendaggi, broccati, damaschi, suppellettili di navi, squisitissimi dolci artigianali, frutta e verdura a buon mercato.

E a volte Milano, anche in febbraio, ti regalava splendidi pomeriggi tiepidi e assolati, un cielo cristallino e un’aria quasi respirabile, mischiata al sapore delle caldarroste e dello zucchero filato. Era un pomeriggio così, nel 1994 o 1995. Per Mariangela Melato non era più il tempo del successo dilagante di Mimì metallurgico (1972)  o La classe operaia va in paradiso (1971). E comunque Milano è una città che non concede troppo al divismo, a meno che non si tratti di calciatori sulla cresta dell’onda o di idoli delle ragazzine.

Ero arrivato a una delle mete più ambite, uno stockista di calzature che di regola esauriva le sue offerte migliori in poche ore, lasciando tutt’intorno centinaia di scatole vuote che a fine mercato l’efficientissima Amnu (Azienda Municipale Nettezza Urbana) faceva sparire. Più avanti, altre bancarelle di scarpe, un’altra di soli jeans, i furgoni degli ambulanti che formavano una fitta gabbia intorno alla strada. Di colpo la scena si animò di urla e di passi concitati. Riuscivo a vedere, oltre la barriera umana di corpi, un ragazzino tenuto da due uomini che si divincolava con tutte le sue forze, muto, atterrito.

Uno degli uomini prese a sbattergli la testa contro il furgone, una due tre volte, poi ancora. Era un rumore bestiale, cupo e profondo, che metteva i brividi. Arrivarono altri uomini, a prendere parte al pestaggio. Il ragazzo, pallidissimo, sembrava svenuto. Ma quell’orrendo rumore di tamburo non si fermava. Qualcuno, tra la folla, spiegava: “l’hanno beccato mentre rubava un paio di scarpe”. Altri, senza pietà, incitavano o sembravano congratularsi.

Di fianco a me si materializzò come un lampo biondo. “Fermatevi, bastardi, lo ammazzate”. Era lei, Mariangela Melato, seguita da un’altra donna, poco più anziana e spaventatissima, che non sapeva se tentare di fermarla o seguirla, mentre lei fendeva la folla che cominciava ad aprirsi, e farle ala. Sopraggiunsero gli addetti di un’ambulanza che stazionava nei paraggi, poi una pattuglia dei vigili urbani. Il rumore di tamburo cessò. Intravidi il faccino nomade, sempre più terrorizzato, che un uomo teneva stretto sotto la sua ascella come una preda. Lei gridava qualcosa come “mio padre era un vigile e non avrebbe mai permesso una vergogna del genere”.

Arrivò una volante della polizia. L’agente che scese si diresse subito verso di lei e le chiese i documenti. Lei rispose qualcosa che non capii, con quella sua voce rauca e nebbiosa, e una risata nervosa e insistita, da attrice. Nell’agitazione si scorgevano i suoi polsi bianchissimi e sottili. Un vigile urbano si frappose, e dovette chiarire la situazione all’agente. Il ragazzino fu caricato sulla volante e portato via. Lei attraversò viale Papiniano, seguita dalla sua amica che tentava di accenderle una sigaretta, e si allontanò verso via Solari e i bei giardini di don Giussani.

Rividi Mariangela Melato sulla scena, qualche anno dopo (2002), al Piccolo Teatro. Era la protagonista di Quel che sapeva Maisie, opera tratta da un meraviglioso e incomprensibile romanzo fin de siècle (1897) di Henry James. Regia di Luca Ronconi. Lei, sessantenne, interpretava una bimba di sei anni sballottata fra una serie di coppie. Al suo fianco, in uno spettacolo interminabile (più di quattro ore), Gabriel Garko, che poi avrebbe fatto fortuna come divo della televisione, e Anna Maria Guarnieri, protagonista di molti sceneggiati agli albori della tv.

Ricordo che mi disinteressai completamente delle vicende rappresentate (e credo irrappresentabili) per guardare solo lei, tentando di capire, battuta dopo battuta, da dove traesse la forza di tutto quello studio, quella volontà, quella applicazione, tali da trasformare un talento non strabiliante, credo, sinceramente, in una delle attrici più superbe del teatro italiano. E sul suo viso triangolare, stralunato e asimmetrico, visto di fronte, maestoso e imponente visto di profilo, come vi fossero rimasti impressi gli spiriti di Olimpia, Cassandra, Fedra, Medea.  (M.T.)

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