Sandor Marai, così come per altri suoi memorabili romanzi, ci regala quattro splendidi monologhi. È l’amore che si mostra attraverso diverse fattezze, lo stesso sentimento narrato dai vari personaggi, visto da diverse angolazioni e scambiato per rivoluzioni o lotte di classe. Il tutto si dipana attraverso metafore e riflessioni rivelatrici, con un’ironia estrema ed una drammaturgia dai connotati teatrali perché – parafrasando lo stesso autore – quando vuole creare qualcosa, la vita realizza messinscene impeccabili.
Marika racconta ad un’amica, sedute in un pasticceria di Budapest, quanto ha amato suo marito Peter e come inevitabilmente lo ha perso. Racconta di questo amore smisurato che, nei suoi eccessi, diventa egoismo e possesso. Lei è una donna bella, colta e raffinata. La moglie perfetta di un uomo borghese, in un periodo in cui la borghesia è la classe sociale per eccellenza. Ma è anche una donna pienamente consapevole che qualcosa, come un’ombra funesta, si contrappone da sempre tra sé e suo marito. Un nastro viola trovato nel suo portafoglio la porterà a scoprire una verità scomoda che segnerà la fine del suo matrimonio e probabilmente l’inizio della sua indipendenza.