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martedì, Aprile 16, 2024

Lo sviluppo del Mezzogiorno: dall’intervento straordinario alla strategia euromediterranea

AperturaLo sviluppo del Mezzogiorno: dall'intervento straordinario alla strategia euromediterranea

Francesco FimmanòPubblichiamo in apertura del Giornale del Molise un intervento del professore Francesco Fimmanò, Ordinario di Diritto Commerciale e vice Presidente del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti. Lo scritto del professor Fimmanò rappresenta un contributo di altissimo valore alla indagine socio-economica e storica sul Mezzogiorno d’Italia. 

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Il divario tra il Nord e Sud del nostro Paese è il risultato di una lunga storia iniziata con l’unificazione cui siamo arrivati (come i tedeschi) in ritardo rispetto alle altre nazioni europee. La Germania, tuttavia, aveva avviato l’unificazione economica nel 1834 con lo Zollverein (l’unione doganale), che ha preceduto l’unificazione politica guidata da Bismarck. Viceversa noi siamo partiti privi di integrazione economica e con una economia tradizionale di antico regime. E probabilmente,in una penisola che complessivamente era ancora distante dai processi economici più avanzati in corso in Inghilterra e in alcune zone del nord Europa,il divario era preesistente rispetto al periodo del primoRisorgimento.

Il Mezzogiorno nella sua storia non è stato caratterizzato solo da arretratezza e stagnazione, ma ha talora evidenziato, nelle giuste condizioni di sistema, una grande capacità di reazione alle condizioni di svantaggio iniziale. Ciò in particolare nell’unico periodo di ininterrotta convergenza: l’era del miracolo economico italiano e della migliore riuscita del cosiddetto “intervento straordinario”. Il ventennio del secondo Risorgimento, tra l’inizio degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Settanta.

L’Italia, in questo periodo, è riuscita a realizzare una doppia convergenza sistemica, interna ed esterna. La “Cassa per Opere Straordinarie di Pubblico Interesse nell’Italia Meridionale”, istituita con la legge 10 agosto 1950, n. 646dal Governo De Gasperie concepita come un ente pubblico dotato di forte autonomia, ha costituito, insieme alla riforma agraria, il vero motore di quegli anni. Nelle intenzioni, l’ente intendeva ricalcare le agenzie di sviluppo locale avviate negli Stati Uniti d’America durante il New Deal, a cominciare dalla Tennessee Valley Authority.

Questo modello è stato il frutto di un indirizzo interventista nell’economia, ma niente affatto statalista, in cui emergeva in primo piano il ruolo dell’azione pubblica nella programmazione e nella definizione dell’assetto dell’economia, come nel pensiero di John Maynard Keynes, con una specifica declinazione, riguardante l’implementazione della capacità produttiva e la crescita del sistema industriale nelle regioni meridionali.

Dal 1951sino al 1992, l’intervento straordinario ha realizzato investimenti per oltre 192.464 milioni di euro (ai valori del 2011) nelle regioni meridionali, per una media annuale di oltre 4.600 milioni di euro l’anno. Una cifra estremamente considerevole anche se, a guardare con attenzione, pari mediamente a circa lo 0,7% annuo del Pil italiano. Gli investimenti della Cassa, il primo strumento attuativo dell’intervento straordinario, hanno prodotto 16.000 km di strade, 23.000 km di acquedotti, 40.000 di reti elettriche, 1.600 scuole, 165 ospedali e tanto di questo anche in Molise.

Il successo dell’iniziativa, tuttavia, fu il risultato del riconoscimento della reciprocità degli interessitra il Nord e il Sud nel senso della complementarietàdel rispettivo sistema produttivo e dell’evoluzione del Mezzogiorno non solo in termini di sbocchi di mercato, ma di attività industriali diffuse, all’interno di una triangolazione di convenienze tra gli Stati Uniti, l’Italia e il Mezzogiorno stesso. Ora come allora solo questa convergenza di interessi interna ed esterna con Europa, Stati Uniti e Cina può far funzionare il modello.

Nell’epoca del miracolo italianoil turnaroundeconomico è stato impressionante, gli investimenti industriali nel Mezzogiorno sono cresciuti di due volte e mezzoed il tasso di crescita del PIL è stato costantemente superiore di due punti percentuali rispetto alla media del Paese. Il sorpasso nei ritmi di crescita del Sud rispetto a quelli del resto del Paese era avvenuto in corsa durante un ciclo espansivo, quando solitamente le distanze si allungano, e aveva consolidato nella reciprocità e nella convergenza l’intera struttura industriale nazionale. Se si fosse data continuità a questa strategia di sviluppo, in gran parte sostenuta dall’intervento pubblico, tutto il Paese avrebbe retto meglio all’alternanza di ascesa e declino della sua struttura produttiva, specie nella fase di crisi.

La successione di avvenimenti del periodo posteriore alla golden age(con la fine del sistema internazionale sorto a Bretton Woods, gli shockspetroliferi degli anni Settanta, la ristrutturazione dell’apparato produttivo italiano, la prevalenza di una forma di liberismo senza regole a livello internazionale, le crisi finanziarie internazionali e del sistema monetario europeo, il decentramento regionale in Italiae la fine del sistema bancario pubblico a sostegno dell’economia) ha restituito, quasi per intero, al territorio meridionale il divario, allontanandolo sempre più dall’obiettivo della convergenza. Il big push, la grande spinta allacrescita realizzata attraverso gli ingenti investimenti infrastrutturali e produttivi non è arrivata al punto di consentire al Mezzogiorno di camminare sulle proprie gambe, perché non è stata completata, specie per il subentro delle Regioni e l’avvio degli interventi a pioggia sul territorio meridionale.

L’avvento della globalizzazione si è verificato proprio quando l’Italia ha abbandonato definitivamente l’intervento straordinario, con la Legge 19 dicembre 1992, n. 488, con il passaggio dalla logica delle iniziative concentrate nelle aree depresse, che presentavano un PIL per abitante inferiore al 75% della media dell’Unione, a quella del sostegno indirizzato anche alle aree in declino industriale e alle aree rurali svantaggiate, che erano localizzate in gran parte nel Centro-Nord. Inoltre, il Trattato di Maastrichte i suoi parametri di convergenza, inserendosi in un quadro internazionale caratterizzato dall’ascesa delle teorie neoliberiste, avevano imposto una consistente contrazione della spesa, volta alla riduzione del debito pubblico.

Questo quadro veniva aggravato dal declinodelle imprese pubbliche, che contribuiva a decretare la conclusione di un’intera fase di sviluppo industriale nel Mezzogiorno e dalla fine del sistema bancario pubblico, in una economia priva del mercato dei capitali e tuttora bancocentrica. Nel nuovo contesto, si è diffusa una strategia improduttiva, fondata sulla crescita locale non sistemica, con l’impiego delle risorse secondo lo schema della “pentola bucata”, basti pensare alle leggi c.d. 64 e 488, ed all’utilizzo parziale e frammentario, privo di una strategia unitaria, dei “fondi europei”.

 Notoriamente – ed è tema caldo di questi mesi – l’azione di politica economica, sin dalla crisi del 2008, è stata orientata a “mettere i conti pub­blici in ordine” adottando la strategia dell’austerità espansiva, con il risultato oggettivo di far letteralmente crol­lare non solo la dinamica ma financo il livello del PIL e facendo crescere il rapporto debito/PIL.

Per il Fondo Monetario: “…Questo ritmo di crescita implica che l’attività produttiva tornerebbe ai livelli del 2007 soltanto alla metà degli Anni ‘20, allargandosi così la forbice con la crescita media dell’area dell’euro”. Ma le cose sono andate persino peggio delle previsioni e di questo passo forse solo alla fine degli Anni ’20 ritorneremo al PIL del 2007. Per scongiurare tutto ciò e le immaginabili conseguenze occorrono poche e chiare linee di azione finalizzate a rilanciare lo sviluppo.

Con la riforma del titolo V del 2001 il Mez­zogiorno è scomparso dalla Costituzione. Ad esso allude solo il quinto comma dell’articolo 119 ri­formato, che attribuisce la potestà esclusiva dello Stato a destinare risorse aggiuntive per programmi straordinari di intervento a favore della coesione sociale. Questo unico nesso specifico va inquadra­to nella restante parte della riforma che garanti­sce il finanziamento integrale dei diritti essenziali (istruzione, sanità, mobilità) su tutto il territorio nazionale. Di tutto questo poco è stato realizzato, così siamo ben lungi dalla garanzia dei diritti fondamentali di cittadinanza sul territorio nazionale. Ciò, nonostante che, fin dal 2009, sia in vigore la legge 42 per l’attuazione del federali­smo fiscale, che deve avere, come vedremo, un ruolo nella strategia eu­romediterranea.

Un esempio è fornito dalla “perequazione infra­strutturale” prevista dalla legge, in gran parte disattesa e talora operante in senso opposto. L’articolo 7-bis della legge 27 febbraio 2017, n.18, tuttavia impegna il Governo ad una spesa in conto capitale nei territori pari alla quota della popolazione.

In realtà con la clausola del 34% delle risorse ordinarie a favore del Mezzogiorno introdotta nella recente legge, anche se non compiutamente applicata, si è fissato un orientamento di fondo, che permette oggi di destinare alle regioni meridionali, con un forte effetto perequativo, la quota – proporzionale alla popolazione – delle spese in conto capitale delle amministrazioni centrali dello Stato.

Nel periodo tra il 2000 e il 2016, tale quota di spesa ordinaria in conto capitale delle amministrazioni centrali è stata pari ad appena il 23%. La SVIMEZ, a questo proposito, ha valutato che, se la norma contenuta nella Legge 27 febbraio 2017, n. 18 fosse stata già attiva durante la lunga crisi, il PIL del Sud avrebbe dimezzato le sue perdite, passando tra il 2009 e il 2015 dal -10,7% al -5,4%, con un recupero ipotetico del 5,3%, salvando così circa 300.000 posti di lavoro.

E la perequazione deve riguardare anche gli investimenti delle grandi imprese pubbliche (di quelle poche rimaste dopo il disastro delle cosiddette privatizzazioni), di cui il Mezzogiorno ha bisogno, accanto alle grandi multinazionali da attrarre, per funzionare da traino della piccola e media impresa.

 È necessario dunque un pieno ritornodell’intervento pubblico, non di impianto statalista, ma basato su una armoniosa ed efficace combinazione di Stato e mercato, che ponga al centro degli obiettivi di strategia industriale la funzione dell’impresa, come soggetto storico e istituzione fondamentaledell’ordinamento e del mercato.Strategia che può assolutamente convivere ed armonizzarsi con l’attenzione “ai conti pubblici”.

Occorre concentrare gli investimenti in un numero selezionato e contenuto di settori ed iniziative che possono fungere da locomotiva per l’intero sistema nazionale.

A questi fini una delle iniziative cardine, che merita par­ticolare attenzione, è il programma di istituzione di un sistema di Zone Economiche Speciali(ZES) nel Mezzogiorno, come attuazione di un principio generale defini­to dalla legge che prevede “… in conformità con il diritto comunitario … forme di fiscalità di sviluppo, con particolare riguardo alla creazione di nuove attività di impresa”.

Nella prospettiva euromediterranea, un “sistema di Zone Economiche Speciali” ha la capacità di recuperare progressivamente il vantaggio posizionale, la condizione affinché la enorme rendita connatu­rata alla nostra centralità nel Mediterraneo possa effettivamente funzionare. Vanno implementate politiche funzionali a declinare e sviluppare per l’impresa così intesa una prospettiva euromediterranea: reindustrializzazio­ne e nuova industrializzazione intelligente, logistica avanzata ed integrata, energie rinnovabili, agroalimentare e “dieta mediterranea”, “made in italy”e turismo di qualità, rigenerazione urbana ed ambientale.

Euromediterraneo come strategia significa riequilibrio delle convenienze tra Sud e Nord Europa sulla base della centralità logistica del Mare nostrum. La ZES rappresenta una concreta innovazione istituzio­nale, che consente di avviare nel più appropriato dei modi quella fiscalità di sviluppo prevista nell’articolo 2 della legge 42 del 2009 di attuazione del federalismo fiscale, finora del tutto inapplicata. L’innovazione consente una razionale fruizione del “bene posizionale” del Mezzogiorno, con riferimento non solo all’area geografica ma anche ai suoi beni paesaggistici e culturali, che rappresentano una enorme rendita di tipo ricardiano. E tutto questo è un compito essenzialmente pubblico, in quanto il nostro Mezzogiorno subisce una perdita secca a vantaggio di chi ha viceversa predisposto misure adatte a com­pensare proprio gli svantaggi posizionali.

Il 40% dei traffici mondiali passa per il Mediterraneo ma solo una piccola quota riguarda l’Italia. Si entra dal canale Suez e si esce da quello di Gibilterra, per arrivare dopo altri cinque giorni di navigazione agli scali del Nord. In termini di consumi di energia, di sostenibilità ambientale, di inquinamento, di rispetto dell’ambiente e del clima, ciò è esattamente l’opposto di quanto si propone in astratto l’Unione Europea. L’Europa in linea di principio avrebbe tut­to l’interesse a realizzare un realistico bilanciamento nella prospettiva della convergenza e della reciprocità.

La logistica, in questa dimensione, è politica nazionale e lo Sta­to dovrebbe avere il ruolo di regista. In tal senso, la proposta della SVIMEZ, in particolare delle Filiere Logistiche Territoriali,rappresenta uno strumen­to operativo teso a ridurre il gapinfrastrutturale che condiziona i settori di eccellenza (si pensi, in primo luogo, all’agroalimentare certificato e di qualità) così da assicurare al Sud una maggiore apertura al mercato globale.

Le ZES non devono essere contenitori standardizzati, prototi­pi uniformi o rigidi, al contrario devono rappre­sentare veri e propri laboratori, utili per inserire rapidamente nel sistema aspetti di innovazione sia tecnologica che istituzionale; questa loro versatilità risponde ai canoni ed alla evoluzione della nuova configurazione dei siste­mi industriali e produttivi in generale.

La ZES si propone infatti come una potenziale area che attrae e incardina sul territorio aspetti significa­tivi delle catene del valore, sia per la componente dei servizi che per la componente tecnologica e della “quasi manifattura”, che tipicamente si sviluppa ormai come fenomeno fortemente consolidato proprio nei retroportied interportiorganizzati nei cosiddetti distripark.

La nostra Regione è impegnata alla massima valorizzazione di questa opportunità programmando un sistema con la Calabria, la Puglia e la Sua autorità Portuale e la Basilicata, che io credo vada integrata con la Campania, specie alla luce dei progetti in corso di realizzazione tra Napoli e Bari. E la nostra area di Termoli ne rappresenta per molti versi un perfetto prototipo sul modello Tangermed.

Grande responsabilità è attribuita alle Regioni meridionaliper il successo delle ZES, che potrebbe essere l’occasione di riscattarsi visto il tanto criticato, spesso giustamente, decentramento. La devoluzione dipoteri a livello locale senza che vi fossero adeguate competenze e qualità professionali nel tessuto istituzionale del Mezzogiorno, che pure aveva espresso figure nazionali di primo piano, è stata infatti una sciagura rispetto all’intervento straordinario. Probabilmente i localismi, le clientele, l’intermediazione impropria e l’ambiente anche culturale non ha funzionato come nella versione centralista. È così peggiorata la governancecomplessiva nelle regioni meridionali, ma anche nel resto del Paese; la competitività oggi non è data da capitale e lavoro solamente, ma, oltre che da conoscenza e informazione, dalla produttività totale dei fattori, che a sua volta dipende dapiù amministrazione efficiente, giustizia tempestiva, formazione di risorse umane di livello eccellente.

Dunque l’intervento deve essere dello Stato centrale e con pochi chiari obiettivi, senza interventi a pioggia ed integrarsi con le Regioni. Anzi tale intervento deve a nostro avviso integrarsi con coordinamenti di più Regioni che organizzino “uffici unici” specializzati e centralizzati: per il Molise in particolare con le Regioni dell’adriatico-centromeridionale. Ciò anche in virtù dello strumento dellacooperazione rafforzata fra le stesse ai sensi dell’art. 117, comma 8, cost., per il migliore esercizio delle proprie funzioni anche con individuazione appuntodi organi comunirimanendo però autonome istituzionalmente e politicamente. La questione è fondamentale perché tra le cause purtroppo evidenti del declino della golden agevi è stato il decentramento funzionale ed il venir meno di una strategia unitaria nazionale.

Questo obiettivo è diretto al fine di promuovere investimenti funzionali ad una rigenerazione economicacoerente con i principi della cosiddetta bluee circular economy.

Una ultima parte del ragionamento riguarda il finanziamento delle imprese storicamente sottocapitalizzate nel nostro ordinamento. Una delle cause del descritto declino è stata la fine del sistema bancario pubblico, che aveva sostenuto nella golden agel’economia dei territori del Mezzogiorno, a cominciare dal Banco Napoli, punto di riferimento del sistema, la cui crisi non a caso fu determinata dalla fine dell’intervento straordinario e dal mancato finanziamento alle imprese di progettualità già deliberate ed in corso.

Il malgoverno del rapporto banca-impresa di questi ultimi trent’anni ed il mutamento del quadro di riferimento precedente, ha prodotto gravi squilibri ed enormi danni. Orbene, il sistema bancario dovrebbe essere “ancillare” rispetto allo sviluppo delle attività industriali e imprenditoriali nell’economia reale. L’attivismo legislativo degli ultimi anni in materia non è andato sicuramente in questo senso e non è servito a granché. La Banca Centrale Europea mise a disposizione, subito dopo la crisi del 2008, oltre 1.000 miliardi di euro con operazioni di rifinanziamento a lungo termine a tassi di interesse vicini allo zero, nella speranza che queste risorse andassero a finanziare la ripresa. Viceversa sono state utilizzate in modo del tutto inadeguato. Paesi come la Spagna, al contrario (grazie alla tempestiva accettazione del «programma» di risanamento e con il supporto del cosiddetto Fondo salva-Stati), sono riusciti ad attivare iniziative che, coordinate con altre azioni della BCE, hanno permesso di conseguire la stabilizzazione del sistema bancario ed il conseguente sostegno alla ripresa. Viceversa l’Italia, nell’ultimo periodo di tempo, ha cambiato completamente il suo modello, con esempi di malgoverno del sistema bancario eclatanti, a cominciare dal Monte Paschi di Siena.

Tutto è partito dalla legge Amato-Ciampi e dalla famigeratagemmazione per legge delle cosiddette Banche conferitariead opera delle Fondazioni di origine bancaria, che a loro volta hanno subito una “mutazione genetica” forzata ed innaturale che avrebbe dovuto essere funzionale ad una sorta di “sviluppo etico dei territori”.

Le Fondazioni bancarie sono state istituite come enti pubblici, con il compito specifico di gestire il pacchetto azionario delle banche e non come enti no profit; il loro patrimonio deriva dal risparmio pubblico e comunque appartiene ad un ente che era pubblico e solo normativamente riqualificato in vitro”.

Permane ancora oggi quell’“abbraccio mortale” con le banche conferitarie che ha determinato un loro drastico impoverimento. Insomma, fanno comodo fondazioni “double face” che gestiscono patrimoni pubblici ma erogano senza alcun procedimento di evidenza pubblica, assumono senza concorsi e spendonosenza vincoli effettivi, non subendo la normativa sanzionatoria in tema di reati contro la Pubblica Amministrazione né il controllo della Corte dei Conti.

Ma se il loro patrimonio è tutto di origine pubblica perché non tornare al passato? Non crediamo che queste fondazioni abbiano dato grande prova di utilità nel “governo sociale” dei territori, almeno farebbero qualcosa di utile sostenendo un sistema economico che comunque rimane banco-centrico.

Al di là dei tentativi, nel nostro Paese non abbiamo il mercato dei fondi istituzionali, dei fondi sovrani, dei fondi pensione, dei fondi di private equity. Negli anni novanta, sulla base del “mantra” che fosse l’Europa a chiedercelo, abbiamo rivoluzionato il sistema.  Con lo slogandel sistema Basilea si è finito per togliere ogni sostegno alle imprese.

Orbene, i patrimoni delle fondazioni derivano dalle banche pubbliche trasformate e quindi sono risorse pubbliche. Attenzione, parliamo del vero fondo sovrano del paese: è inammissibile che un sistema di tale portata, che ha ancora il controllo o comunque influenza notevole e dominante sul sistema bancario, sia spesso ostaggio di notabilati locali. Facciamo riferimento a patrimoni rilevantissimi e a risorse enormi distribuite ogni anno sui territori di appartenenza. Pur volendo ammettere la logica del supporto ai territori, tutto deve avvenire secondo regole di trasparenza, efficienza, legalità, non come avviene adesso, peraltro sotto il controllo della Corte dei Conti, visto che non rileva la natura del soggetto ma la natura delle risorse.

Investire i lauti profitti delle banche in opere a sostegno delle comunità può sembrare a prima vista un progetto meritorio, nel quale le fondazioni assumono un ruolo di moderno mecenate. Ma, tolto il velo dell’apparenza, la situazione si rivela ambigua e gestita senza alcuna trasparenza, poichè qui non vi è un mecenate privato, ma un’istituzione che elargisce risorse derivanti dalla originaria proprietà pubblica. Vi sono presidenti di fondazioni che le gestiscono di fatto ormai da trent’anni, in modo da sopravvivere a se stessi. Peraltro, l’obbligo per le fondazioni di investire il 90% dei proventi nella regione di appartenenza privilegia il nord rispetto al sud del Paese, contribuendo a enfatizzare una differenza di disponibilità che ha ormai ampiamente superato il livello di guardia. Inoltre, se le sedi delle grandi fondazioni e delle relative grandi banche sono concentrate al nord, lo stesso non si può dire dei loro correntisti, o in generale della loro attività operativa. Sarebbe agevole trasformarle in S.p.A. e assegnare i pacchetti azionari al Ministero del Tesoro, che potrebbe dismettere le partecipazioni realizzando valori prossimi a 100 miliardi di euro in funzione di “taglia debito”. In ogni caso, lo Stato avrebbe strumenti per governare concretamente il settore senza detenere partecipazioni.

Ora nessuno sogna o ipotizza che si possa tornare al passato come se nulla fosse accaduto. Tuttavia, occorre impedire il ripetersi di questi clamorosi errori,. Se lo Stato, la Cassa Depositi e Prestiti, le Fondazioni bancarie, le Casse di previdenza e di assistenza, devono intervenire in operazioni di salvataggio delle banche, devono farlo in funzione dell’economia reale, dell’economia dei territori. In questo momento storico, in una visione liberale e non liberista, occorre un intervento forte dello Stato nell’economia, proprio per avviare una nuova concezione di finanziamento alle imprese.

Tutto ciò anche per avviare forme di intervento e sostegno alla creazione di un mercato dei capitali, funzionale al venture capital,all’equity crowdfundinged al finanziamento delle start up, in un momento storico in cui il gapè divenuto nuovamente recuperabile se si percorre la strada giusta. Molte delle principali società quotate a Wall Street sono nate, nell’era globale postfordista, in pochi anni, spesso da giovani studenti universitarie dal binomio business-education, da idee innovative vincenti senza bisogno di grandi finanziamenti, laddove, nella società dell’industria di massa, l’avvio di grandi industrie pesantiavrebbe richiesto investimenti enormi. E, proprio per questo, nella nuova era digitale, nella quale l’industria nasce sempre più dalla conoscenza e si rivolge a un modello sempre più personalizzato, ci auguriamo che tanti nostri studenti dei nostri formidabili atenei seguano l’esempio dei loro colleghi americani e fecondino il territorio del Mezzogiorno e del Paese con intraprese innovative e coraggiose.

Questa è la vera sfida del terzo Risorgimentodell’Italia: uno Stato sovrano e liberale che intervenga in modo forte nell’economia dei territori per impostare e guidare una strategia euromediterraneae che metta al centro un sistema delle imprese adeguatamente sostenuto da un mercato dei capitali.

Parafrasando il premo Nobel per la letteratura George Bernard Shaw, direi: “C’è chi vede le cose come sono e dice: – Perché? –. Io invece sogno cose mai viste e dico: – Perché no?–”.

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