14.6 C
Campobasso
giovedì, Marzo 28, 2024

I migliori al potere?

AperturaI migliori al potere?

di GIANFRANCO VITAGLIANO

In un suo scritto, pubblicato qualche giorno fa, Adele Fraracci, più che esprimere un’opinione, costruisce un ragionamento che individua quale problema dei problemi dell’Italia non il popolo ma la sua classe politica, identificata tout court con la casta.

L’autrice contesta la veridicità del paradigma, generalmente condiviso, della specularità tra società e classe politica e attraverso due domande a risposta “suggerita”(A chi conviene il paradigma? Cosa ha determinato la sua accettazione?) conclude “salvando”  sostanzialmente il popolo e incolpando i politici  –  tutti – che giudica in malo modo, attribuendo loro  la interessata paternità della teoria dello specchio al fine di coprire le proprie malefatte e responsabilità.

Al ragionamento, a mio giudizio, fallace oppongo alcune riflessioni di critica non condizionata dall’orientamento culturale o dal pregiudizio dell’appartenenza.

Innanzitutto trovo evidentemente strumentale, oltreché populista, l’equazione classe politica uguale casta.

In questo nostro Paese la casta è notoriamente considerata un’entità trasversale alla società nella quale si muovono, più o meno collegati tra loro,  soggetti che fanno capo alla politica, all’economia pubblica e privata, ad alcune istituzioni pubbliche, alla finanza.

Un’élite interconnessa, dunque.

La politica, non nella sua interezza, ne fa parte, ma non in via esclusiva.

Nessun contrasto, quindi,  sulla casta come grave problema del Paese con l’intesa che, al suo interno si ricomprendano sì i politici disonesti, quelli approssimativi e superficiali, arroganti, ignoranti ma non tutta la classe politica, nella quale c’è una estesa parte buona che costituisce una grande risorsa del sistema e una vittima, insieme al popolo, della stessa casta.

In questa varietà della politica, che va dalla disonestà all’inadeguatezza  passando per la vasta area dei buoni, non è difficile riconoscere la specularità tra la società, nella sua complessa articolazione, e la sua classe dirigente.

Che c’è, soprattutto, nella “mediocrità”, intesa nel senso proprio di condizione media, ugualmente distante dai limiti estremi.

La democrazia, infatti, consegna il potere alla maggioranza della popolazione, ossia alla sua parte più comune, cioè la mediocre, non a quella più saggia ed eccellente. Il popolo non ha la voce della saggezza e del buon senso ma la voce più popolare, quella media.

Si converrà, quindi, che è la stessa democrazia inadeguata a riconoscere, attraverso l’attribuzione del consenso, il merito e l’eccellenza. Nella rappresentanza politica le scelte elettorali sono normalmente estranee al merito ed alla competenza e, perciò,  emergono facilmente “non i migliori”.

Quale più efficace dimostrazione della oggettiva esistenza dello specchio tra politica e società,

quale più evidente spiegazione della presenza in politica di soggetti “medi” dell’omogeneità tra rappresentanti e rappresentati?

Con la risposte a queste domande diventa arduo non dare al popolo la responsabilità della sua rappresentanza, non tanto per le azioni di quest’ultima, ma certamente e pienamente per le sue qualità ed adeguatezza al ruolo.

Proprio in relazione a questa costitutiva “incapacità” ad esprimere una adeguata classe dirigente c’è la corresponsabilità del popolo come problema del Paese.

Tant’è vero che la Fraracci, nella sua costruzione, sottintende e nemmeno velatamente l’opzione per la tecnocrazia che, ideologia non democratica, consentirebbe di elevare a classe dirigente solo i migliori della società civile ma evidentemente attraverso cooptazione e non, quindi, attraverso il voto popolare.

La mia conclusione, dunque, è che l’attuale stato delle cose veda oggettivamente un concorso di responsabilità tra quella parte inadeguata della  classe dirigente e il popolo che la sceglie – paradossalmente anche attraverso l’astensione dal voto –  e la delega a governare, ancorché condizionata da una patologica subalternità al consenso.

Ed è con quella parte che è in reciprocità il popolo che, non riconoscendo tempi e modi alla strategia di governo, chiede un’azione politica ridotta alla gestione dell’immediato, l’adattamento delle istituzioni e dei loro responsabili ai bisogni del momento e non ai sogni, alle aspettative, alle speranze.

È sempre quello a pretendere, nelle sue individualità, soddisfazione per i singoli più che atti per il bene comune.

Hai voglia, allora, a denunciare il clientelismo politico.

Se non si fosse “clienti” dentro non ci sarebbero “negozianti”.

E se dal Paese si stringe l’obiettivo sul Molise, poi, i  difetti “democratici” appaiono ancora più gravi in relazione alla criticità della dimensione demografico-territoriale.

Da noi trovano facile radice e linfa la personalizzazione e l’autoreferenzialità in ogni sistema, in politica, nell’economia, nelle relazioni sociali.

A questo dato è più che proporzionale la bassa qualità della selezione.

Direi alla luce di queste ragioni, semplificando e con ironia, che “nell’anagrafica popolare” i cognomi Scillipoti, Razzi, Verdini sono diffusi in Italia così come i Micone, Di Pietro e Di Nunzio lo sono in Molise.

E siccome chi si somiglia si piglia, ecco fatta la rappresentanza.

E i capaci e gli adeguati in un tale meccanismo sono per forza la minoranza. Lo specchio riflette sempre!

Non chiudo, ovviamente, con il problema e suggerisco una possibile soluzione.

Intanto, come selezionare la classe dirigente?

Una mia idea del recente passato che non ha avuto sufficiente consenso (anche gli organi collegiali funzionano con la democrazia!): bisogna far crescere la capacità critica, l’autonomia di giudizio, e il senso di sé  nelle persone (tutte qualità non gradite ai politici inadeguati) con un grande intervento di formazione sul territorio, di stimolo alla crescita culturale del sistema.

L’obiettivo: far diventare normali l’attenzione alle grandi cose ed al bene collettivo, al merito ed all’efficienza, l’abitudine al confronto e alla competizione, la cultura della valutazione preventiva e del risultato, la risposta ai bisogni e non alle domande, il rifiuto per gli sprechi e l’effimero.

Gli “alunni” di questo grande sforzo educativo: i politici; quelli che lavorano nella scuola, in sanità, nei servizi pubblici; gli operatori dell’informazione; gli imprenditori; la gente comune.

Lo sforzo educativo dovrebbe, tra l’altro, migliorare “l’appetibilità” della politica rispetto ai  buoni e ai capaci che potrebbero raccogliere la sfida come dovere civile e scendere in maggior numero in campo.

Non credo affatto nella capacità salvifica dei pentastellati.

Non ce la farebbero ad eliminare la casta – non esistendo alternative alla crescita morale e culturale del popolo in tutte le sue componenti – e sarebbero fonte inesauribile di classe dirigente inadeguata, per approssimazione ed arroganza.

I disonesti: nessun  tentennamento, via definitivamente senza possibilità di appello dalla cosa pubblica.

Un’ultima considerazione: dare, sempre e solo, contro la classe politica favorisce insieme alla fuga dei buoni  la deresponsabilizzazione del popolo che, autoassolvendosi, si ritroverebbe ad inseguire le sirene del populismo e della demagogia e con una casta che, capace com’è di adattarsi, si replicherebbe nel suo interesse e nei suoi difetti.

 

Ultime Notizie