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venerdì, Aprile 19, 2024

Riforma costituzionale: la posta in gioco

AttualitàRiforma costituzionale: la posta in gioco

riforma_costituzionale-e1457366439502di ITALO DI SABATO*

Vi è una frase, molto stupida ma molto accattivante che, in maniera ossessiva ripetono all’unisono Renzi, Napolitano e la Boschi in questi mesi: “ Bisogna riformare la Costituzione, modernizzare il paese, un Si contro le istituzioni bloccate. Se vince il No al referendum costituzionale è un dramma”.

Grazie a una discutibile formulazione dei quesiti (del genere: preferisci la merendina o saltare la ricreazione?) e alla loro presentazione in blocco, prendere o lasciare, il SI è rappresentato, anche grazie e soprattutto ad una feroce campagna mediatica, come volontà di cambiamento, mentre il NO appare in automatico come pigrizia, volontà di conservazione, flaccida paura del nuovo. Cambiamento e velocità del cambiamento (“essere più veloci vuol dire essere più giusti”) diventano valori, senza stare troppo a specificare i contenuti e i modi. Quanto più vaga e retorica è la proposta, tanto maggiore è l’accanimento contro ogni critica o presa di distanza.

Con la riforma Costituzionale, invece, è bene che tutti comprendano che non ci troviamo di fronte ad una “tecnica istituzionale” ma ad una ristrutturazione politica delle istituzioni. Essa si svolge, tra l’altro, non in un clima “storico”, così come ogni Costituzione deve nascere, ma in un clima di mercificazione. Che si trattasse, a casa di Renzi con Verdini il “presidenzialismo” o il “capitolo giustizia” della nuova Costituzione, nessun democratico italiano aveva mai immaginato. La realtà, molte volte, sa essere più drammatica degli incubi!

Il punto più rilevante della riforma è senza dubbio il superamento del bicameralismo perfetto: in luogo di due camere che votano le leggi del governo, avremo una sola Camera (di 630 deputati) con poteri legislativi e a cui il governo chiede la fiducia. Il Senato, non più elettivo, è ridotto a 100 senatori, di cui 95 eletti dai Consigli regionali e 5 nominati dal Presidente della Repubblica. Altre modifiche riguardano il rapporto Stato-Regioni, i tempi d’esame delle leggi in Parlamento, l’aumento del numero di firme necessarie per promuovere una Legge di iniziativa popolare, che passano da 50.000 a 150.000. Organica e coerente a questa riforma è anche l’Italicum, la nuova legge elettorale dall’impianto fortemente maggioritario varata da Renzi che prevede un ampio premio di maggioranza (55 % dei seggi) alla lista di maggioranza relativa.

Gli obiettivi politici della riforma mi paiono essenzialmente due, uno contingente, l’altro strutturale. Quello contingente consiste nel cavalcare il sentimento “antipolitico”, l’aver identificato l’emblema di tutti i mali italiani nella “casta”, nella (indubbia, per carità) incapacità, immoralità e corruzione della nostra classe politica, funziona efficacemente da arma di distrazione dell’opinione pubblica rispetto a quella che invece è la questione dirimente, ovvero l’aumento crescente delle disuguaglianze sociali, dello sfruttamento del lavoro, della distruzione dei territori. La questione sociale “scompare” totalmente dalla dialettica istituzionale.

Le istituzioni diventano una “corazza” contro il conflitto sociale. Perciò vi è bisogno, per i “nuovisti”, di un “uomo forte” per un popolo “muto”, che esaurisce, con il voto al Leader, la sua attività, la sua “funzione” politica.

È proprio in virtù dell’imporsi dell’alternativa politicista innovazione/conservazione che il rottamatore Renzi si è apprestato, con una rapidità e un decisionismo senza precedenti, a riscrivere la costituzione del nostro paese, con un sapiente mix di neoliberismo, autoritarismo e abilità comunicativa. In due anni Renzi è riuscito a fare quello che Berlusconi non era riuscito a fare in venti.

Il secondo aspetto invece è strutturale, trova dei paralleli in altri paesi europei, ed è anche quello più inquietante: il decisionismo autoritario, il rafforzamento dei poteri dei governi a scapito di altri contrappesi istituzionali. La cancellazione del bicameralismo perfetto non è infatti una pura operazione di architettura istituzionale fine a se stessa. Pensiamo infatti al ruolo che ha avuto, per tante lotte, vertenze e mobilitazioni di carattere nazionale, l’obbligo di far approvare un disegno di legge, dai due rami del parlamento, che di fatto è stata nella storia della repubblica parlamentare uno spazio materiale di contrattazione e pressione dal basso per cercare di limitare i danni o addirittura per provare a stoppare le leggi più retrograde. Il venir meno di questo arco temporale, la riduzione dell’unica camera a cinghia di trasmissione della volontà del governo, governo che grazie all’Italicum ne deterrà la maggioranza assoluta è dunque un’arma in meno a disposizione dei cittadini per far valere i propri diritti. Anche l’aver triplicato il numero delle firme necessarie per portare in parlamento una legge di iniziativa popolare va in questa direzione. Il plebiscito è un segmento della democrazia autoritaria; è l’esatto opposto della democrazia organizzata e partecipata in una società pluralistica, complessa, ricca di saperi, culture, professionalità, bisogni.

Se le cose stanno così, chi si propone di far vincere il No al referendum del prossimo autunno, dovrebbe avere il coraggio di esprimere delle posizioni chiare, apertamente controcorrente. Si dovrebbe dire che in questa fase più governabilità significa meno democrazia, che tutto ciò che l’establishment considera un impedimento e un ostacolo per “fare le cose e per farle in fretta” (tra cui, per l’appunto, la necessità del doppio passaggio parlamentare, oppure la difficoltà di governare con un parlamento in cui il partito di maggioranza è “costretto” a mediare con altre forze politiche), è una risorsa da utilizzare per rallentare e magari provare a fermare la distruzione dei diritti sociali che le politiche neoliberiste e di austerità che l’Unione Europea ha imposto e continuerà a imporre.

Di fronte alla crisi della democrazia, indotta dai processi di globalizzazione e dal mutamento delle funzioni dello Stato-nazione, viene messa da parte la risposta (possibile ed innovativa) dello sviluppo della democrazia di massa all’interno di un orizzonte di socializzazione, di democratizzazione della vita quotidiana, di allargamento e dilatazione dell’ambito della decisionalità; per puntare invece sulla scelta, ossessivamente ricercata, dell’esaltazione dell’esecutivo e dei “poteri di comando” centrali, nel tentativo, per l’appunto, di renderli impermeabili alle tensioni, ai conflitti, alle modifiche indotte dalla società, dalla “domanda democratica”.

Cosa altro voleva la famosa Commissione Trilaterale? E, per certi versi, quali erano i criteri di fondo del cosiddetto Piano di Rinascita Democratica di Licio Gelli?

Basta ricordare le recenti affermazioni dell’ex presidente del consiglio e componente della Trilateral Mario Monti quando disse che la Costituzione italiana è contro l’impresa perché è nata da un mix di solidarismo cattolico e di proposte comuniste. (per esempio, gli articoli 41, 42, 46 sull’impresa e sulla proprietà che pongono i diritti della comunità al di sopra del profitto.)

Proprio ciò che ora si vuole realizzare: un “protrarsi” dell’elemento di coazione implicito nel meccanismo dell’accumulazione capitalistica sul terreno diretto delle istituzioni e della “politica”. Il “pubblico” soggiace al “privato”; la comunità soggiace alla valorizzazione del capitale. Si tenta di “costituzionalizzare” i rapporti di forza sociali, caratterizzati, ideologicamente e politicamente, da una violenta rinascita liberista. Insomma, la logica del mercato e dell’impresa tendono a pervadere la “sfera politica” fino al punto di svuotare ogni strumento democratico, di controllo, di partecipazione organizzata di massa. Viene negato il “valore sociale” del lavoro, che è un cardine della nostra Costituzione, subordinandolo al primato dell’accumulazione. Del resto, quando la moneta può essere governata dalla banche, senza che gli stessi governi possano intervenire in maniera efficace nell’ambito europeo, siamo già ad un abbattimento, in sé per sé, della sfera della sovranità politica, intesa come processo collettivo di trasformazione, capace di “dialettizzarsi” con i processi di autorganizzazione.

A fronte di tutto ciò, però, bisogna anche dire che la Carta vigente in parte presenta segni di fisiologico invecchiamento e che ha subito di recente gravi deviazioni neo-liberali, come la costituzionalizzazione del fiscal compact e del pareggio di bilancio. Oppure, senza stare a rivangare su vecchie pagine di storia e guardando all’attualità, è chiaro che da 30 anni una “costituzione materiale” ha di fatto scalzata la “Costituzione formale” e i principi che la carta enuncia. Provvedimenti come il Jobs Act, la Buona Scuola o lo Sblocca Italia, i tagli alla sanità, le missioni di guerra spacciate per missioni di pace, le legislazioni speciali d’emergenza e i pacchetti sicurezza, il piano casa e il suo famigerato art. 5, sono sfregi viventi ad altrettanti articoli della Costituzione.

Gli articoli costituzionali che riguardano i diritti sono costantemente violati. A partire dall’articolo 2, sui diritti dell’uomo. Che senso hanno le polemiche di questi giorni sui migranti alla luce di questo articolo? Quando si parla di diritti dell’uomo ci si riferisce a tutta l’umanità, non solo ai cittadini italiani. Così come nel dibattito pubblico si ignora del tutto l’articolo 10, sul diritto d’asilo.

Poi ci sono gli articoli 3 e 4 sulla dignità sociale e il diritto al lavoro. E l’articolo 36 sulle retribuzioni giuste e proporzionate. Ma questi articoli sono oggi rispettati dal nostro sistema economico? Pensate che la Repubblica abbia fatto quanto poteva “per rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale alla libertà e all’uguaglianza tra tutti i cittadini”?

Ci sono, poi, un ampio pacchetto di articoli che riguardano i diritti alle libertà personali e alla giustizia giusta. Ne cito alcuni. L’articolo 13, per esempio, che stabilisce che “la libertà personale è inviolabile”, che è punita “ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”, che “la legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva”, l’articolo 21 che dice che tutti hanno il diritto di esprimere il proprio pensiero, l’articolo 24, che dice che vanno puniti gli errori giudiziari, l’articolo 27 che dice che si è innocenti fino a condanna definitiva, l’articolo 28 che prevede la responsabilità civile dei magistrati, e l’articolo 111, che dice che il processo deve avere una ragionevole durata, e che non solo è violato ma è in questi giorni, su richiesta dell’Anm, sottoposto a un nuovo furibondo attacco con le proposte in Parlamento di limitare ulteriormente la prescrizione.

Per questo penso che la campagna referendaria debba essere anche un’occasione per fare anche il punto sullo stato della democrazia e dello stato di diritto del nostro paese, sugli scenari di repressione che già ci sono e su quelli che già si preparano per far fronte all’ “emergenza terrorismo”.

E’ auspicabile che ci fosse una maggiore consapevolezza sul livello di repressione che subiscono le lotte sociali. Si pensi solamente, per citare i più eclatanti, all’abuso che è stato fatto negli ultimi anni di normative come il divieto di dimora o il foglio di via, che conferisce all’arbitrio delle questure la facoltà di allontanare militanti e attivisti dai territori in cui si sviluppano le lotte sociali. Oppure al maldestro tentativo di recupero dell’accusa di terrorismo per le azioni di sabotaggio dell’Alta velocità in Val di Susa. O ancora, all’aberrazione giuridica del reato di devastazione e saccheggio, residuo del codice Rocco di epoca fascista, sistematicamente adoperato dalle giornate di Genova 2001 in poi per colpire con delle pene pesantissime (fino a 15 anni di carcere) i partecipanti a manifestazioni in cui si sono verificati episodi di conflittualità contro le forze dell’ordine. Anche di questo vorrei che si parlasse nella campagna referendaria, della democrazia e della Costituzione che già non ci sono.

Non si tratta dunque di difendere un testo a prescindere, ma solo di constatare che un NO laico e pragmatico evita peggioramenti e lascia aperto lo spazio a un vero processo costituente, tutto da impostarsi e non certo nel chiuso di una stanza.

Non si tratta semplicemente di provare a mandare a casa Renzi, ma di sfruttare questa occasione per cercare di far emergere, a fronte dei tanti discorsi fumosi sulla semplificazione e sul taglio delle poltrone da un lato, e dagli altrettanto fumosi panegirici e appelli a difesa della democrazia e della sacralità della Carta costituzionale dall’altro, la realtà della repressione delle lotte, degli spazi di democrazia già da ora negati o ristretti.

Un No che sia solo una prima tappa di una riforma costituente che vada in senso opposto, verso l’incorporazione nella legittimità delle lotte e del diritto di resistenza, per una maggiore partecipazione democratica.

O sapremo costruire, da qui all’autunno, un movimento “largo”, plurale, capace di coinvolgere anche settori sociali o rischiamo di giungere al referendum costituzionale come profeti disarmati, impotenti di fronte all’ondata populista, sapientemente “pilotata” dai Renzi e i suoi cortigiani di turno.

Può non interessare. Ma è bene conoscere la posta in gioco.

*Coordinatore Osservatorio sulla Repressione

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