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giovedì, Aprile 25, 2024

Quando si giunge in treno a Montenero, Petacciato, Termoli e Campomarino

EditorialiQuando si giunge in treno a Montenero, Petacciato, Termoli e Campomarino

di Claudio de Luca

Viaggiando in treno lungo l’Adriatico, una volta giunti nel Molise, diventa agevole rilevare come si atteggi questa porzione d’Italia quando sia rimasta inzuppata dalle piogge nella rovina dei campi che ne è conseguita. Questo pezzullo di una regione già minima si dilava come un cencio, ricoprendosi di una massa d’acqua da cui parrebbe non volere più riemergere.

Il Molise è figlio delle colline che lo conformano; è la madre povera di fiumi miseri che, comunque, potrebbe ritornare a rituffare le sue crete nel mare, senza disfarsi come un biscotto nel latte. I viaggiatori dei convogli ferroviari in transito si rendono conto se questa regione potrà risorgere dalla situazione in cui è stata fatta precipitare? Quando giungo nella Stazione di Termoli, la “Freccia bianca” è in perfetto orario. Nel piccolo mondo di una carrozza c’è sempre chi ama restarsene in piedi con i lombi appoggiati contro la fiancata del sedile e che, ogni paio di minuti, è costretto ad appiattirsi, per lasciar passare un tipo di passeggero, più inquieto che cammina incessantemente da una vettura all’altra, transitando sulle predelle rumorose dei buffetti di congiunzione. Vi è pure chi preferisce godersi le comodità della poltrona, magari con le dita infilate nel naso, ma offrendosi l’àlibi di un volto riflessivo, atteggiato come se volesse dire:”Ho la mente occupata in ben altri pensieri e non posso rispondere del mio inconscio ravanare le narici”. Infine vi sono i più fastidiosi, quelli che aprono una valigia, che ne estraggono un panino sapientemente incartato e che, nascondendolo per una buona metà nell’involto argentato, cominciano a mordicchiarlo con lo sguardo assente sinché, esaurito il “fiero” pasto, storcono il collo verso il corridoio, nell’attesa di vedere transitare il carrettino portavivande per fruire dell’agognata bevutina post-prandiale. Tra i personaggi “on the board” (che credo proprio non si accorgano del decadimento a cui stanno per assistere), quelli che dormono (almeno quando non finiscono con la testa sulla spalla del vicino e non fanno gorgogliare la saliva tra le labbra) sono i più sopportabili. Ma c’è pure chi afferra una cartella, ne estrae dei fascicoli, legge, annota e sottolinea, sentendosi addosso gli occhi dei compagni. Evidentemente suppone che quegli sguardi siano tutti pieni di considerazione:“Chi sarà? L’Amministratore delegato di un istituto di credito? Il Direttore di un Consorzio o il Presidente di una Società quotata in borsa?”. Tipico è colui che guarda “films” al “p.c.” o che si immerge nella lettura delle pagine di un libro. Estraneo a quanto avviene nella carrozza, oppure infastidito dal vociare altrui, se ne sta fisso a guardare le righe, respirando a lungo ogni 5 minuti. Chi gli sta di fianco (o di fronte) tenta di individuare il titolo del volume, senza riuscirvi; anche perché, o per pudore o per riservatezza (o, più semplicemente, per indispettire il prossimo), il viaggiatore-lettore ne mantiene nascosti i caratteri, avendo cura di lasciare in mostra sempre il lato posteriore del volume e mai la copertina. Viaggiando in treno lungo l’Adriatico, una volta giunti a Montenero, Petacciato, Termoli e Campomarino diventa agevole rilevare come si atteggi questa porzione d’Italia quando sia rimasta inzuppata dalle piogge nella rovina dei campi che ne è conseguita. Questo pezzullo di una regione già minima si dilava come un cencio, ricoprendosi di una massa d’acqua da cui parrebbe non volere più riemergere. E’ proprio quando diventa preda delle alluvioni e dei nubifragi (soliti ad affliggere il Termolese) che questa terra, dai tetti chiari delle case e con gli asfalti grigio-scuri delle sue strade, appare in tutta la sua povertà, col suo “humus” smangiato sempre più nel profondo. Vedendolo così intriso, non si pensa che, dopo pochi giorni di sole, esso ridiverrà secco quanto una lisca di pesce, mostrando la porzioncina di una terra già misera, continuamente rivestita e spogliata, ridotta a rimanere nuda come può essere un verme. Eppure essa potrebbe ridiventare un giardino di delizie, se non si fosse tramutata in un nido di insidie; la madre delle biade e la terra del vino, se non si fosse ridotta ad un campo di fatica e di pena nonché ad essere teatro di miserevoli periodiche lotte politiche interne autoreferenziali. Chissà se, ad un certo punto della sua esistenza, non sarà proprio l’acqua a distruggerla: un liquido che scorre poco nelle condutture comunali, ma che abbonda al di fuori di esse su terreni dove, sotto il manto d’”humus”, la Camorra ha versato veleni e rifiuti.

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